• 3 Dicembre 2024
Itinerari

Nell’alto casertano, precisamente nel territorio di Piedimonte d’Alife, oggi Piedimonte Matese, nella località Monticello, veniva coltivato una qualità d’uva chiamano Pallagrello nero e Pallagrello bianco (nel dialetto locale “u pallarell”). Questo tipo di uva veniva coltivato già a partire dal 1750 dove divenne un vino così pregiato tanto amato dai Borboni. Il nome deriverebbe dalla parola latina “Pilleolata” per indicare proprio una piccola palla, questo va a richiamare proprio la forma perfettamente sferica degli acini ed è anche uno dei pochi casi di vitigni a bacca nera e bianca.

Proprio per la sua origine a lungo questo vino veniva chiamato dai Borboni Piedimonte nero e Piedimonte bianco. Divenne così pregiato che nel 1775 il re Ferdinando IV di Borbone fece apporre un epigrafe esistente ancora oggi nella località Monticello con le seguenti parole: “Ferdinando di Borbone, per grazia di Dio re delle Due Sicilie, fa noto a tutte e qualsivoglia persone di qualunque grado e condizione sia, che da oggi, non ardiscano né presumano di passare né ripassare per dentro la masseria di moggia 27 circa vitata. Sita nella città di Piedimonte nel luogo detto Monticello tanto di notte quanto di giorno con lume o senza, né a piedi né a cavallo né con carretti o some, sotto pena di ducati 50”. Quest’ epigrafe sta a significare che, addirittura, veniva proibito a chiunque di calpestare la proprietà dove veniva prodotto questo vino tanto pregiato per i Borboni e non solo. Infatti diverse corti europee apprezzarono questo tipo di vino.

I Borboni lo amavano così tanto da farlo definire il vino nobile dove lo fecero conoscere in tutte le corti europee. Nei loro viaggi come omaggio alle varie corti reali donarono proprio questo tipo di vino e lo offrivano anche ai loro ospiti e lo includevano, sempre con il nome di Piedimonte rosso, tra i vini presenti nelle grandi occasioni insieme ai più blasonati vini francesi.

Negli anni successivi queste viti iniziarono ad essere coltivate anche nei territori limitrofi a quello di Piedimonte, come Gioia Sannitica, San Potito Sannitico, fino a Caiazzo, Ruviano e Castel Campagnano.

Verso gli inizi del ‘900, purtroppo, queste viti furono colpite da oidio, un fungo fitopatogeno, e dalla fillossera, insetto dannoso fitofago della vite. Queste due infestazioni procurarono quasi la scomparsa di questa vite tanto pregiata dai Borboni. Negli anni successivi l’intera area fu ricostituita in altri vigneti ma a partire dagli anni ’80 e ancora di più negli anni ’90 alcuni imprenditori hanno voluto riprendere questa vite autoctona di Piedimonte Matese. Oggi è stata ripresa e rivalorizzata sia la vite che il vino stesso.

Da Ruviano a Castel Campagnano, da Caiazzo fino a Gioia Sannitica diversi imprenditori agricoli locali hanno ripreso la valorizzazione di questo tipo di uva riportandola ai livelli passati, purtroppo ancora presto per ritornare ad essere un vino nobile come sotto i Borboni ma sicuramente, visto le qualità del vino e la tenacia di queste aziende locali si potrà ottenere un ottimo successo. Proprio perché questo vino non ha nulla da invidiare ai vini piemontesi e veneti.

Autore

Campano, laureato in scienze politiche e relazioni internazionali, specializzato in scienze della politica in studi parlamentari all'Università della Sapienza di Roma. Collaborato con RadioSapienza, web tv e giornali web. Direttore della Biblioteca Comunale Safina di Gioia Sannitica. Sono stato presidente del Comitato Sviluppo e Territorio. Appassionato di viaggi internazionali e scrittura pubblicando un primo libro, un giallo ironico, in formato ebook, i segreti di filetto. Il libro è il primo capitolo su 4. Appassionato di storia, soprattutto locale.