Che l’uomo sia il peggior nemico di se stesso è ormai acclarato. Distruggendo, con maniacale impegno, la natura, la terra, l’ambiente sta finendo per privarsi della vitalità che dovrebbe preservare. Il progressismo aggressivo incentrato sull’avidità, più che un’ideologia è un modus vivendi della modernità. Sicché tutto si è ridotto ad una conquista e ad una irresistibile volontà di sottomissione. Beneficiamo, dunque, della terra e dei suoi frutti senza pensare al futuro, industriandoci a ricavare profitti dall’esaurimento sconsiderato delle risorse. Fin dagli anni Trenta molti ecologisti ante litteram si posero il problema di salvaguardare l’ambiente cercando di soddisfare sostenibili, umane esigenze. Sembra che abbiano parlato al vento. Tra essi, uno dei più notevoli, dotato peraltro di una verve polemica non comune, è stato Walter Ernest Christopher James, Barone di Northbourne. Fu agronomo e studioso delle religioni e delle filosofie tradizionali. Individuò il morbo della società moderna nella rottura del rapporto tra l’uomo e la natura. Nel suo libro più celebre Considera la terra (Castelvecchi), Northbourne anticipa i problemi originati dall’industrializzazione dell’agricoltura nell’accrescimento della produzione, insomma l’avvelenamento dei prodotti di cui ci nutriamo. L’agricoltura biologica a cui pensa non è un rimedio eccentrico, ma la ricostruzione del legame tra le ragioni della terra e quelle della produzione. Seguace di Steiner ha avuto come epigoni Gregory Bateson, Bill Mollison, Frank Capra, mentre molto gli assomiglia il romanziere americano Wendell Berry. “La natura – scrive Northbourne – è terribile e sordida solo per coloro che non la comprendono, e solo quando l’incomprensione ne ha turbato gli equilibri. Essa è permeata soprattutto dalla forza dell’amore; nonostante tutto, può essere ‘conquistata’ attraverso l’amore e in nessun altro modo. Non è stata questa la via che abbiamo percorso”.
Ed ora ne paghiamo le conseguenze, sembra aggiungere Giancarlo Sturloni, autore di un libro dal forte impatto emotivo: Il pianeta tossico (Piano B). L’autore, attenendosi ad un freddo realismo, si chiede se sopravviveremo a noi stessi. I dubbi al riguardo sono noti, ma il peggio è che pur consapevoli delle distruzioni che operiamo, nulla in concreto facciamo per evitare la catastrofe. Abbiamo inquinato e depredato il Pianeta; le terre si stanno esaurendo; non sappiamo, a meno di non ricorrere ad una agricoltura integralmente modificata geneticamente, come ci sfameremo dopo il 2050; le coltivazioni deperiscono nella desertificazione che avanza, i pesticidi avvelenano l’acqua bene primario che manca ormai in molte aree della Terra. abbiamo fatto un bel capolavoro sfruttando risorse che avremmo dovuto custodire gelosamente. Insomma, è più importante il “mercatismo” o la sopravvivenza? Sturloni non ha dubbi. I margini di salvezza ci sono. Basta saper invertire la rotta, dalle politiche agricole a quelle sul clima. Ad avvelenarci, volendo, faremo sempre a tempo.
Chi non si avvelenava affatto erano coloro che mangiavano sano, non sappiamo se anche “bene”. In tempi lontani, purtroppo, come documenta Franco Cardini – e solo lui poteva farlo – nel suo delizioso libro L’appetito dell’Imperatore (Mondadori). Spaziando dalla mensa di San Francesco a quella di Balzac, dal banchetti derl Gran Khan alle cene frugali di Napoleone, Cardini ci offre un libro appassionate e “profumato” non privo di suggestioni storiche e curiosità appetitose. Ci riconcilia così con il cibo e la sua sacralità profanata dai nuovi barbari.
Fino a qualche decennio fa era era ancora possibile farsi illusioni sul destino prossimo venturo dell’uomo in rapporto alla natura. La difesa dell’ambiente poteva ancora essere considerata una “moda” con la quale civettare ed utilizzarla politicamente inventando partiti ambientalisti ed associazioni ecologiste con pretese rappresentative. Oggi tutto questo è soltanto un ricordo patetico. L’allarme è talmente vasto che necessita risposte globali finalizzate al cambiamento radicale del nostro stile di vita. Una enorme metastasi, infatti, si è prodotta nella società: il cormorano che non riesce a levarsi in volo dalle acque bituminose dei mari del Nord è il simbolo più evidente, unitamente ai cataclismi ambientali originati dall’incuria del territorio, dello stato estremamente precario di fronte al quale le analisi non bastano più. L’ecosistema è franato. Le illusioni si sono spente. Quello che rimane è soltanto un raccapricciante miraggio di morte davanti al quale o ci si pone come contemplatori rassegnati o attivi produttori di idee per limitare la deriva ambientale.
Chi ama il mondo e ritiene l’uomo al centro della natura sa che lo sviluppo tecnologico incontrollato e la dimenticanza delle aree rurali e montane a beneficio di un inurbamento dalle conseguenze catastrofiche, è dovuto all’affermazione della ideologia progressista che, come i fatti dimostrano, ha lasciato dietro di sé soltanto macerie in ossequio alla logica del profitto per cui la devastazione delle campagne è dovuta anche all’utilizzo di prodotti che uccidono a lungo andare o minano la qualità delle piante avvelenando l’agricoltura. Dai frantumi di un mondo disfatto, e attraverso un processo di lenta, ma inesorabile devastazione delle forme spirituali e biologiche, siamo precipitati in una situazione di difficile controllo soprattutto in riferimento ai mutamenti climatici che stanno mettendo a dura prova la tenuta del Pianeta.
Tutto ci fa intendere, dall’inquinamento alle catastrofi che sottraggono milioni di ettari di territorio all’agricoltura, dalla deforestazione alla fine di specie animali per pura speculazione (l’avorio: la strage di elefanti e rinoceronti non è caccia…), dall’alterazione delle aree boschive all’innalzamento del livello dei mari alla decadenza dei borghi e delle piccole comunità, comprendiamo che la crisi ambientale è dovuta prevalentemente all’infrazione brutale delle leggi che regolano il fluire della vita. Il consumismo, l’edonismo, l’eudemonismo, l’invadenza tecnologica spinta agli eccessi, la devastazione di vaste aree naturali per costruire luoghi consacrati allo sfruttamento turistico, hanno prodotto la desolazione che si lamenta, ma non si argina. Navighiamo insomma tra i detriti della modernità verso un grande mare le cui insidie nessuno sa evitare.
Può essere il prezzo della salvezza quello di affidarci a considerazioni demagogiche e confuse rese celebri per esempio dalla giovane scandinava Greta Thunberg? O forse quello di solcare l’ignoto sulla navicella delle illusioni come una politica miope e conflittuale si ostina a farci credere? Realisticamente occorre riconoscere la priorità della preservazione della natura per attuare iniziative coerenti con lo sfacelo che che è davanti ai nostri occhi. In tale prospettiva le direttrici lungo le quali muoversi, non possono che essere due, strettamente connesse: il riequilibrio dell’esistenza e la messa in discussione di ciò che è a fondamento della devastazione che riconosciamo, l’egualitarismo. L’uomo contemporaneo, così come è stato plasmato dalla ideologia egualitaria, incarna valori eminentemente economici anche quando questi dovrebbero sottostare a quelli spirituali e politici.
Non è ancora chiaro che conservare è preservare, ma anche tramandare ed innovare in coerenza con i principii che si ritengono irrinunciabili. La causa ambientalista, stupidamente fatta passare per uno degli asset ideologici della sinistra in quanto ritenuta arbitrariamente in opposizione al capitalismo, è quanto di più conservatore vi possa essere, e non per un pre-giudizio ideologico, quanto per la connessione tra la natura, manifestazione perenne della creazione, e la perpetuazione delle forme viventi, a cominciare dall’uomo.
Se taluni ecologisti di sinistra fossero meno stupidi e incolti si rivolterebbero, proprio in nome della conservazione della natura contro il modernismo ed il progressismo, le cui conseguenze inquinanti derivano dal produttivismo esasperato che sta lacerando il Pianeta. Il collettivismo e l’ idealismo globalista stravolgono la natura, come constatiamo a beneficio della mostruosità effimera rappresentanza dall’efficientismo autoritario statalista e dall’egoismo personalista e liberista.
L’equilibrio sta nella conservazione della natura che non si coniuga con gli atteggiamenti stakanovisti e con le avide acquisizioni e trasformazioni di ciò che è indisponibile come “bene comune”. Il grande filosofo britannico Roger Scruton ha più volte evidenziato nei suoi saggi l’incompatibilità tra ambientalismo e collettivismo di stampo soprattutto marxista. I social-comunisti si sono fatti promotori di un gigantismo architettonico che, oltre all’inquinamento ha deforestato aree del Pianeta immense, non diversamente dal capitalismo selvaggio che ha desertificato altrettante vaste zone, come l’Amazzonia, per costruire veloci autostrade e arricchirsi con lo sfruttamento del caucciù, il tutto ai margini di città precarie, costruite come dormitori e somiglianti a campi di detenzione per gli operai costretti quasi in schiavitù nelle profondità delle zone dove si spegnevano, a causa di presenze sgradite e sgradevoli, tribù che la civilizzazione nel corso dei secoli non era riuscita a scalfire, come gli Yanomami ridotti a presenze pressoché irrilevanti nel bacino del Rio delle Amazzoni. Dove si nutrono – e non è un particolare irrilevante – come altri popoli di caccia e pesca. È questo un aspetto che viene ritenuto detestabile e condannabile dalla modernità, ma si pone riguardo all’eco-sistema, la propensione venatoria fa parte della vita dell’uomo dalla notte dei tempi (basterebbe citare Omero, per esempio).
La crudeltà che si imputa alla caccia considerata crudele bisognerebbe imputarla alla stessa caccia che praticano tutte le specie animali. Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset ha elaborato nel suo Filosofia della caccia (Oaks editrice) una nostalgia per la foresta dove gli elementi vitali trovano terreno di scontro su un piano che definire “aristocratico” è affatto esagerato. La tenzone con la bestia rimanda alla guerra, ma al di là del lato sportivo (non sempre l’uomo vince), c’è o c’era l’obiettivo di procacciarsi il cibo. In un altro libro, non meno affascinante, ma certamente più autobiografico, Sulla caccia di Roger Scruton (Editoriale Olimpia), le riflessioni filosofiche sull’ars venandi aprono uno spiraglio sull’essenza dello sport e dunque del cimento, spesso ardito, pericoloso, terribilmente crudele. Ma che ha delle regole al di fuori delle quali si è nel regno della barbarie.
Anche la caccia, dunque, fa parte di un ambientalismo che oggi viene sostanzialmente negato nelle sue molte sfaccettature. E se ne demonizzano alcune, come l’attività predatoria, ma se ne assolvono altre come lo sterminio delle tribù indigene, veri e propri spettacoli di un crimine la chi pratica è inditta dal profitto e dallo stravolgimento del Pianeta la cui fotografia è orrenda ben più dell’inseguimento della volpe da un branco di cani che hanno il solo compito di stanarla richiamando l’attenzione del cacciatore. Tutto ciò si può dire che rientri in una “estetica” del conservatorismo.
Secondo Scruton – “l’ambientalismo è la quintessenza della causa conservatrice, l’esempio più vivo nel mondo, così come lo conosciamo, di quel partenariato fra i morti, i vivi e i non ancora nati, di cui Burke faceva l’ apologia e vedeva come l’archetipo del conservatorismo” (Essere conservatore).
Ciò vuol dire che nulla ci appartiene per sempre. Quel di cui godiamo e che ci rende responsabili della preservazione, oltre che del soddisfacimento naturale con l’obbligo di non distruggere, ma di incrementare, è il “ tesoro” che vincola le generazioni. Perciò distruggere a fini di puro ed esclusivo arricchimento è quantomeno barbaro, ma pure altamente nocivo ai fini della continuità della specie. Sfruttare, insomma, indiscriminatamente, la natura è un affronto a noi stessi, alle generazioni passate e a quelle che verranno. È un crimine contro il Pianeta.