• 24 Novembre 2024
Economia

Il concetto di ordine mondiale è, per sua natura, complesso e sfaccettato, e spesso non lo cogliamo pienamente. Esso è fondato su Stati, strutture organizzate che radunano sotto un’unica sovranità gruppi umani distinti per leggi, tradizioni e culture, e che esercitano il loro potere sovrano per perseguire fini giuridici, sociali e politici. Ogni Stato, infatti, non è solo un’entità giuridica, ma una comunità che si definisce attraverso un insieme di valori, norme e istituzioni, che riflettono l’identità di chi lo governa. Questi valori possono appartenere a una figura di autorità (un monarca, un popolo o una classe dirigente) e sono incardinati nella tradizione storica e culturale di chi detiene il potere.

In questo scenario globale, l’ONU, pur con il suo nome che potrebbe suggerire l’idea di un’unione tra popoli, è in realtà una federazione di Stati Sovrani. Il suo scopo principale è quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionali, promuovere la cooperazione tra le Nazioni, risolvere i conflitti internazionali e difendere i diritti umani. Le Nazioni Unite non sono un governo mondiale, ma piuttosto un forum di confronto per gli Stati membri, con l’obiettivo di armonizzare le loro diverse politiche e risolvere le problematiche globali attraverso il dialogo e la diplomazia. Tuttavia, ciò che spesso sfugge è che i membri di questa organizzazione non sono entità omogenee, ma Stati che riflettono la molteplicità di identità culturali, etniche e storiche che li compongono. E, come vedremo, questa diversità è una delle cause profonde dei conflitti che scuotono il nostro mondo.

Anche se alcuni Stati sono identificabili con una Nazione, ossia un popolo con radici culturali, storiche e linguistiche comuni, non sempre le due entità coincidono. In molti casi, lo Stato non coincide con la Nazione, e il territorio di uno Stato ospita gruppi umani che, pur appartenendo allo stesso Stato, vivono una propria identità culturale, storica e linguistica. Un esempio è l’India, dove diverse etnie, religioni e lingue convivono nello stesso spazio territoriale, ma raramente vengono riconosciute pienamente nelle politiche statali. Allo stesso modo, in paesi come la Francia, la Spagna e l’Italia, esistono popolazioni che si considerano distinte per lingua, cultura e tradizione, e che spesso si sentono estranee a una sovranità centrale che non tiene conto delle loro peculiarità.

Un caso emblematico di questa problematica è rappresentato dal Regno Unito, che non è una Nazione unica, ma un insieme di Nazioni: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Questa pluralità di identità all’interno di uno stesso Stato ha generato storiche tensioni, come la questione scozzese, che periodicamente si ripropone con forza. La stessa Cina, pur essendo uno Stato altamente centralizzato, ospita numerose minoranze etniche che si sentono marginalizzate, come i popolazioni uigure, che non solo sono culturalmente distinti dalla maggioranza Han, ma vivono anche una tensione religiosa e politica che sfida l’autorità centrale. Un altro esempio riguarda la Russia, dove la varietà di lingue, etnie e religioni rende la questione nazionale particolarmente delicata, con numerosi gruppi che chiedono maggiore autonomia o indipendenza, sfidando l’unità territoriale imposta dal Cremlino. È evidente, dunque, che la coesistenza di più identità all’interno di un unico Stato crea frequentemente instabilità, che spesso sfocia in conflitti.

In Stati con una pluralità di identità culturali e linguistiche, l’unità statale è messa a dura prova. Quando le leggi statali non riflettono pienamente le tradizioni e le identità delle minoranze, l’integrazione diventa difficile e la coesione sociale si indebolisce. L’elemento che dovrebbe unire i membri di uno Stato, ossia la “cultura comune”, spesso non esiste o è percepito come estraneo da molti gruppi. In questo contesto, parlare di etnia è ancora utile per comprendere le dinamiche di esclusione e oppressione che si verificano all’interno di questi Stati, anche se oggi la parola ha un significato più ampio e complesso di quanto non fosse nel XIX secolo, quando fu coniata. L’etnia, nel contesto attuale, si riferisce a quei gruppi che condividono tradizioni culturali, religiose e linguistiche che li distinguono dalle altre componenti della stessa nazione.

Tuttavia, quando le leggi di uno Stato non riconoscono queste differenze, e non garantiscono la libertà di espressione culturale, le tensioni crescono. Un equilibrio pacifico tra le etnie è teoricamente possibile, ma nella pratica risulta arduo, specialmente quando uno Stato esercita un potere coercitivo senza tener conto delle specificità dei suoi cittadini. In questi casi, lo Stato si riduce a un’entità puramente amministrativa, fondata esclusivamente sulla forza e sull’autorità delle leggi, senza un vero legame affettivo con la popolazione. Quando i gruppi minoritari non si sentono parte integrante dello Stato, il rischio di conflitti e disordini cresce, alimentando una spirale di rivendicazioni e oppressioni che, come dimostra la storia, può sfociare in guerre.

In questi giorni, la guerra in Ucraina e la continua violenza in Palestina rappresentano esempi emblematici di come le rivendicazioni identitarie possano sfociare in conflitti violenti. In entrambi i casi, la tensione non riguarda solo le frontiere politiche, ma la battaglia per il riconoscimento e la sovranità di gruppi etnici e nazionali che non si sentono rappresentati dai rispettivi Stati. Questi conflitti sono, a mio avviso, il risultato di Stati che non sono vere Nazioni, ma piuttosto amalgami di gruppi differenti che lottano per un’identità comune che non esiste. Sono la logica conseguenza di un ordine mondiale che, pur cercando di garantire la pace, non riesce a comprendere le profondità delle differenze etniche, culturali e religiose che attraversano i suoi membri.

La memoria storica ci aiuta a comprendere meglio questi fenomeni. In Italia, ad esempio, i moti popolari che hanno portato alle guerre di indipendenza hanno avuto una radice profonda nel desiderio di creare uno Stato che rispecchiasse l’identità nazionale. La Prima guerra di indipendenza, combattuta dal Regno di Sardegna e dai patrioti italiani contro l’Impero austriaco, ne è un esempio lampante. Sebbene il Regno di Sardegna fu sconfitto in entrambe le campagne militari (a Custoza e Novara), il conflitto segnò l’inizio di un processo che avrebbe portato alla nascita dello Stato italiano. L’attacco al dominio austriaco, pur essendo un atto di guerra, si configurava come una rivendicazione di un’identità condivisa, un tentativo di restituire al popolo italiano la sua terra e la sua autonomia. Un atto che, se avvenisse oggi, probabilmente verrebbe condannato dalle Nazioni Unite per violazione della sovranità territoriale, ma che all’epoca rappresentava il cammino verso l’indipendenza e la costruzione di un’identità nazionale.

In questi tempi di globalizzazione e di crescente spinta verso il mondialismo, il concetto di “Patria” sembra essere stato dimenticato o, peggio, ridotto a un’entità astratta. Ma la Patria, intesa come la terra dei padri, il luogo a cui siamo affettivamente legati per origine, storia e cultura, è ancora una forza potente per milioni di persone nel mondo. Nonostante le promesse di un mondo più unito e interdipendente, la realtà ci dice che l’essere umano non può essere ridotto a una mera entità economica o politica, ma ha bisogno di radici, di un luogo a cui appartenere, di un’identità che vada oltre la semplice appartenenza a uno Stato. Questo bisogno di appartenenza è, in fondo, il motore di molte delle lotte per l’autodeterminazione e la libertà che attraversano il nostro mondo.

Il mondialismo, con la sua visione economica e finanziaria, non è in grado di rispondere ai bisogni spirituali e identitari degli individui. La sua visione riduzionista e mercantile della società non riesce a rispondere alla domanda di significato che l’uomo pone a sé stesso. Questo vuoto lasciato dalla globalizzazione è una delle cause principali delle crisi che attraversano il mondo contemporaneo e che l’ONU, nella sua attuale configurazione, non è in grado di risolvere. Fino a quando non si darà un nuovo corso alle dinamiche internazionali, riformando l’ONU e mettendo fine a un sistema che conferisce poteri inaccettabili a pochi Stati, continueremo ad assistere a conflitti senza fine che non potranno essere risolti attraverso il semplice dialogo e le soluzioni diplomatiche. La riforma dell’ONU, e la possibilità di dare voce a tutte le realtà etniche e nazionali, è oggi una necessità impellente per garantire un ordine mondiale più giusto e stabile.

Autore

è dirigente Consob e responsabile dell’Ufficio “Ufficio Consumer Protection”. E’ dottore commercialista e revisore legale. Svolge attività di docenza in materie economiche presso varie Università italiane ed estere sia statali e che private (UniSapienza, UniCusano, Almaty University, NORTH-WESTERN FREE TECHNICAL UNIVERSITYecc). E’ membro di vari comitati scientifici di enti sia privati che pubblici sia italiani che esteri (Fondazione Einaudi, Agenzia per il controllo e la qualità del Comune di Roma, membro del CONSIGLIO GENERALE DE “EURASIAN PEOPLES’ ASSEMBLY”, Senior Financial and Legal Advisory Board di “NEXT4 PRODUCTION SRL, ecc). E’ stato membro di importanti Enti Pubblici e privati (Formez, Consorzi Agrario di Bologna, ecc) consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta per la tutela dei consumatori ed utenti. Giornalista pubblicista, collabora con varie riviste scientifiche e con diversi quotidiani e settimanali (L'Opinione, Il Sole 24 Ore, La Discussione, Il Borghese, Consult Press, L'Europa della Libertà, Einaudi Blog - blog della Fondazione Luigi Einaudi, Punto Continenti, il Secolo d'Italia, Il Monocolo, The Global Review, L’Italiano on line- quotidiano, Intervento nella Società).