Dal Financial Times, a ridosso della vigilia di Pasqua, una Festa religiosa punteggiata anche dalla presenza da una ricca Tradizione gastronomica, è arrivato un attacco surreale ai piatti simbolo della cucina italiana. Al centro dell’attacco del quotidiano economico-finanziario britannico la volontà di banalizzare la tradizione alimentare nazionale, dalla carbonara al panettone, dal tiramisù fino al Parmigiano Reggiano. In sostanza la carbonara l’avrebbero inventata gli americani e il panettone ed il tiramisù sarebbero prodotti commerciali recenti (da snobbare), mentre si arriva addirittura ad ipotizzare che il Parmigiano Reggiano originale sia quello che viene prodotto in Wisconsin in Usa, la patria dei falsi formaggi Made in Italy.
Un articolo ispirato da una vecchia pubblicazione di un autore italiano che – come ha stigmatizzato la Coldiretti – potrebbe far sorridere se non nascondesse preoccupanti risvolti di carattere economico ed occupazionale. La mancanza di chiarezza sulle ricette Made in Italy offre infatti – sostiene la Coldiretti – terreno fertile alla proliferazione di falsi prodotti alimentari italiani all’estero dove le esportazioni potrebbero triplicare se venisse uno stop alla contraffazione alimentare internazionale che è causa di danni economici, ma anche di immagine.
L’agropirateria mondiale nei confronti dell’Italia ha raggiunto un fatturato di 120 miliardi, con in testa alla classifica dei prodotti più taroccati i formaggi, a partire dal Parmigiano Reggiano e dal Grana Padano, con la produzione delle copie che ha superato quella degli originali, dal parmesao brasiliano al reggianito argentino fino al parmesan diffuso in tuti i continenti.
Ma ci sono anche le imitazioni di Provolone, Gorgonzola, Pecorino Romano, Asiago o Fontina.
Tra i salumi sono clonati i più prestigiosi, dal Parma al San Daniele, ma anche la mortadella Bologna o il salame cacciatore e gli extravergine di oliva o le conserve come il pomodoro San Marzano.
Tra gli “orrori a tavola” non mancano i vini, dal Chianti al Prosecco – spiega Coldiretti – che non è solo la Dop al primo posto per valore alla produzione, ma anche la più imitata.
Siamo – in tutta evidenza – alla “guerra alimentare”, una guerra che va condotta certamente respingendo le falsificazioni produttive e culturali (sul modello di quanto scritto dal Financial Times) ma anche “in positivo” esaltando le nostre peculiarità gastronomiche.
E’ quanto è intenzionato a fare il Governo Meloni che ha deciso di candidare – su proposta dei ministri dell’Agricoltura e sovranità alimentare Francesco Lollobrigida e della Cultura Gennaro Sangiuliano – la cucina italiana quale patrimonio dell’umanità Unesco per il 2023.
Il dossier, redatto dal professore della Luiss, Pier Luigi Petrillo, che già in passato aveva curato le candidature all’Unesco di tanti elementi come la Dieta Mediterranea e l’arte della pizza napoletana, è stato trasmesso dal ministero degli Esteri all’Unesco e inizierà l’iter di valutazione che dovrebbe concludersi, al più tardi, a dicembre 2025. La cucina italiana viene definita come un insieme di pratiche sociali, riti e gestualità basate sui tanti saperi locali che, senza gerarchie, la identificano e la connotano. Questo mosaico di tradizioni riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo del pasto come
occasione di condivisione e di confronto.
Da questo documento si evidenzia il rito collettivo di un popolo che concepisce il cibo come elemento culturale identitario, nella misura in cui la cucina nazionale non è solo cibo o un semplice ricettario, ma un insieme di pratiche sociali, abitudini e gestualità che portano a considerare la preparazione e il consumo del pasto come momento di condivisione e incontro. Da noi, in Italia, cucinare è un modo di prendersi cura della famiglia e degli amici (quando lo si fa in casa) o degli avventori (quando lo si fa al ristorante). E’ un’espressione di creatività e conoscenza che si fa tradizione e si trasmette tra generazioni. Ed è anche una forma di tutela della biodiversità, basata sul non sprecare nulla, sul riutilizzo del cibo avanzato e sui prodotti stagionali dei vari territori.
E’ un patrimonio per 60 milioni di italiani che vivono nel Paese e per 80 milioni di italiani e loro discendenti che vivono al di fuori del Paese e per tanti stranieri che amano e si ispirano allo stile di vita italiano.
Non a caso Giuseppe Prezzolini, uno dei grandi protagonisti della vita culturale del Novecento, parlava della cucina italiana come di “una filosofia della vita”, somma e risultato – scriveva Prezzolini (in L’Italia finisce ecco quel che resta, Vallecchi 1958) – “di secoli di prove eseguite nel più intimo laboratorio della civiltà di un popolo: la famiglia. Qui si compirono milioni di esperimenti, un numero infinito di mescolanze di cibi, di condimenti e di bevande furono assaggiate, di carattere vario, ma tutti adatti e attinenti ad ogni particolare paese”.
In quelle mescolanze di cibi, di condimenti e di bevande c’è la nostra Storia ed un pezzo importante della civiltà italiana, da rivendicare con orgoglio, per la gioia dei palati e non solo … Con buona pace dei giornaloni d’oltre Manica e dei nuovi cultori della farina di grillo.