• 2 Luglio 2024

Nessun atto è così violento quanto il chiedere ad un uomo di rinunciare alle proprie passioni, fondamentalmente perché esse lo connaturano, lo seguono, gli fanno ombra. Bisognava prenderne atto, ad un certo punto della storia e dopo secoli di violento manicheismo (ellenico, tardo antico e medievale) tra passione e ragione, vizio e virtù, vita etica e vita passionale. E invece no: per arginare il più possibile le passioni in un insano tentativo che ammetteva una sola riserva, si pensò di dividere tra “passioni smodate” e “passioni calme”. Le une indice di bassezza e perciò da correggere ed evitare, responsabili come sono di fallimenti morali e guerre private; le altre, invece, garbate e silenti, così miti ed individualistiche da addirittura “ingentilire”. La passione calma per eccellenza era certamente la brama di denaro, l’accumulazione fine a sé stessa, quel pacato modo di maneggiare la moneta e servirsene o non servirsene, poco importa, poiché a quel tempo occorreva solamente un viatico per riconoscersi possessori, dietro un sogno comodo e performante di marca economica. Nacque il mito capitalista che tanti salutarono come il glorioso momento della disposizione sempre più ampia di moneta senza incorrere nel peccato ed anzi per aggirarlo. Ma, lungi dal ripercorrere questa, seppur interessante, lettura alternativa a Max Weber che fece il pensatore Albert Hirschman nel suo “Le passioni e gli interessi”, qui ci si vuole, invece, concentrare su come il concetto di moneta, anche dove non sbagliato, ha finito, a causa del capitalismo stesso (rimandato ad una borghesia molto più ampia del previsto) per perdere la sua organica valenza di misura reale ed alterare negativamente la vita non tanto di chi ha accettato e sponsorizzato il meccanismo, quanto di chi lo ha rifiutato da sempre.

Si prenda in esame la lucidissima analisi di Charles Péguy nell’opera “L’Argent” del 1913.  Egli dice che “il mondo moderno non si è procurato bassezza e turpitudine col suo denaro. Al contrario, poiché aveva ridotto ogni cosa al livello del denaro, ha trovato che ogni cosa era bassezza e turpitudine”.

“Il denaro è sommamente rispettabile, non lo si dirà mai abbastanza, quando è il prezzo e il valore del pane quotidiano” e anzi “non bisogna vergognarsi di parlarne, di parlare del denaro come tale”: “non è affatto disonorevole quando rappresenta il salario, la ricompensa o la paga, ossia quando, in sostanza, rappresenta lo stipendio. Quando lo si è guadagnato in povertà”. Povertà è un’espressione di Péguy fraintendibile, ma non casuale e non significa affatto “stato di indigenza economica”, ma, al contrario, è utilizzato per dire che “il pane quotidiano è assicurato da mezzi semplicemente temporali, dal semplice gioco dell’equilibrio economico”. La disamina è lucidissima ed il pensatore francese non fa l’errore di rinchiudersi nell’utopia assoluta della distribuzione in parti uguali. Parte dall’assunto che esiste un equilibrio economico ed anzi aggiunge in modo molto impopolare che “se la borghesia fosse rimasta non tanto quello che era storicamente, quanto quello che in linea di principio doveva e poteva essere -ossia l’arbitro economico, la misura del valore commerciale- la classe operaia non avrebbe chiesto che di rimanere quello che era sempre stata: la fonte economica del valore commerciale”.  Questo perché “c’era, anche nelle case più umili, una specie di benessere di cui si è perduto il ricordo. Non si facevano conti. E non c’era bisogno di contare […], non esisteva questa paurosa strozzatura economica che ora ci dà un nuovo giro di vite […]”.

Dice Péguy: “un uomo che si limitasse nella povertà” era comunque “garantito nella povertà”: “era una specie di tacito contratto tra l’uomo e il destino. Era scontato che chi agiva secondo la sua fantasia, chi entrava in gioco, chi voleva sfuggire dalla povertà rischiava tutto. Ma chi non giocava non poteva perdere”.

Questo passaggio è fondamentale perché denota uno stato di cose che appare insopprimibile: si afferma chiaramente il valore reale ed inalterabile della moneta guadagnata e maneggiata e si afferma altresì che chi non rischia nell’investimento non può ovviamente perdere nulla. Il capitalismo borghese distrugge invece il meccanismo di cui sopra, alterando l’entità della moneta non solo per sé, ma per tutti e lo fa in un preciso momento della storia in cui riesce a camuffare i suoi progetti con la lotta di classe.

Nessuno immaginava “che stava arrivando un’epoca in cui chi non giocava avrebbe perso comunque, continuamente e con maggiore certezza di colui che gioca”: “non potevano prevedere questa mostruosità, […], il purgatorio, per non dire l’inferno del mondo moderno: dove anche chi non gioca perde, e perde sempre”. “Questo strangolamento scientifico, freddo, geometrico, regolare, netto, nitido, senza sbavature, implacabile, saggio, abituale, costante, come una virtù: una strozzatura sulla quale non c’è più nulla da dire, e nella quale colui che viene strozzato sembra avere così palesemente torto” inizia quando non solo il denaro “è della gente di mondo”, in quella “Parigi divisa in due classi così perfettamente separate, al punto che mai si era visto tanto denaro scorrere verso il piacere e il denaro rifiutarsi sino a tal punto al lavoro” ma soprattutto quando si amplia il concetto di borghesia. “L’antica borghesia diventa una borghesia squallida, una borghesia del denaro” ed inizia ad intrecciarsi col potere e con l’amministrazione, perché, dice Péguy, “sappiamo benissimo che il denaro c’è solo per quelli che entrano nei partiti e […] fanno il gioco dei partiti”.

“La borghesia si è messa a trattare il lavoro dell’uomo come valore di borsa”, questo è ovvio, ma ciò che è occulto è che ha potuto farlo solo quando si è subdolamente insediata nei partiti politici e specialmente in quelli che sembravano i meno borghesi di tutti i partiti.

Dice Péguy che il partito socialista politico francese “composto esclusivamente da intellettuali borghesi” e il sindacato fattosi potere sono entrambi costituiti da individui i quali “anch’essi, come gli altri, infestati e contagiati dalla borghesia” hanno lasciato scomparire “la nozione del giusto prezzo”, si sono messi “a fare un continuo ricatto sul lavoro dell’uomo” e hanno imperniato il tutto in quello stesso sciopero che “fa salire sempre i salari di un terzo, il costo della vita di una buona metà e la miseria della differenza”. Il risultato è stato che, spinto da questo sistema di finta tutela, “il lavoratore si è messo, lui pure, a trattare come un valore di borsa il proprio lavoro […], a fare continui colpi di borsa sul proprio lavoro: per imitazione, per collusione o riscontro”, alimentando il capitale borghese, perdendo moneta anche laddove non aveva rischiato di perderla, soffocato da “un collare di ferro che ci tiene per la gola e che ogni giorno si stringe di un giro” e parte di un mondo in cui “non si parla che di uguaglianza e viviamo nella più mostruosa ineguaglianza economica che sia mai esistita”.

Riassumendo con un’ultima citazione péguyniana, “Il denaro è più rispettabile del potere perché non si può vivere senza denaro, mentre si può vivere benissimo senza esercitare il potere”: almeno in linea di principio era questo l’assunto da cui il capitalismo borghese doveva partire. Ma è evidente che è giunto poi un momento in cui il denaro si è indissolubilmente legato al potere e ha iniziato a compiere crimini ben più gravi del (riprendendo Hirschman) passionale contro cui, all’inizio, diceva di combattere.

Autore

Abruzzese, classe 1994. Laureata in “Scienze politiche e relazioni internazionali” e in “Filosofia e scienze dell’educazione” con tesi, rispettivamente, sul misconoscimento giuridico e sul pensiero economico di Charles Péguy. Laureanda in “Innovazione educativa e apprendimento permanente nella formazione degli adulti in contesti nazionali e internazionali”. Studiosa di Charles Péguy, approfondisce le opere del pensatore orléanese attraverso la partecipazione a realtà accademiche e culturali, sia italiane sia francesi. Giornalista e vicedirettore di "Il Guastatore". Ha collaborato con "Il Giornale Off", "Cultura Identità", "Il Giornale" nella pagina del sabato, "Lacerba" e “La Regione-rivista del Centro Italia”. Membro del comitato redazionale dell'“Istituto Stato e Partecipazione", col quale, tra gli altri progetti, ha preso parte al volume “Borgo Italia” di Edizioni Eclettica. Autrice, assieme ad altre donne, del volume “Ignoto Militi” per Idrovolante Edizioni. Nonostante gli studi filosofico-politologici, ha interessi nel campo narrativo-poetico e ha già pubblicato una silloge dal titolo "Specchio" (2014).