• 3 Dicembre 2024

Una volta Francesco Durante, che curò il Meridiano Mondadori dedicato all’opera di Domenica Rea, disse alla figlia del grande scrittore di Ninfa plebea, Lucia: “Tuo padre era un vero scrittore: prendeva la vita a morsi”. Può sembrare un po’ curiosa la qualità indicata dal giornalista e critico recentemente scomparso; eppure, se si legge la pagina dell’autore di Quel che vide Cummeo non gli si può dare torto. Domenico Rea, infatti – come amava ricordare il suo amico e insieme avveduto critico, Ruggero Guarini – aveva una sua “musa creaturale” che lo metteva direttamente in contatto, anzi, in comunione con il cuore dell’umano e gli concedeva il privilegio di accantonare e mettersi alle spalle ogni tentazione e ogni fisima ideologica. Ecco perché Domenico Rea è lo scrittore italiano del Novecento più anti-ideologico che ci sia e con i suoi pezzenti, i suoi lazzari, insomma, con la plebe di cui è stato il cantore nel bene e nel male e al di là del bene e del male è sempre andato nelle corna degli intellettuali di sinistra che non sapevano dove collocare la sua letteratura e la sua plebe.

Nacque a Napoli, ai Gradoni di Chiaia, l’8 settembre 1921 – c’è sempre un 8 settembre da ricordare – e la sua generazione, anno più anno meno, è quella di una sfilza di scrittori napoletani che possono temere la “concorrenza”, forse, solo dei siciliani: Ortese, La Capria, Compagnone, Prisco, Marotta e altri ancora. Ma, non me ne voglia nessuno, Domenico Rea rimane una spanna sopra a tutti. Perché? La risposta migliore è quella che rimanda ai libri dello scrittore che inventò Nofi – la sua cittadina ideale e reale, diabolica e angelica, pura e impura – e che ora la Bompiani, grazie al centenario, rimanda in libreria prima con Spaccanapoli, poi con Ninfa plebea, quindi con Fondaco nudo. I racconti di Spaccanapoli, in particolare, più che alla letteratura sembrano appartenere ai fulmini del cielo e della terra perché apparvero nello spazio di un mattino del 1947 e non solo rivelarono Rea a Francesco Flora ed Emilio Cecchi, a Giuseppe De Robertis e Luciano Anceschi ma anche e soprattutto a sé stesso. Perché Rea, lasciando le cose che scriveva prima – si fa riferimento al racconto lungo La figlia di Casimiro Clarus – si mise sulla strada che non avrebbe più lasciato ed era quella che dal Trecento di Boccaccio e delle “visioni” di santa Caterina da Siena passando per il Seicento di Benvenuto Cellini e Giambattista Basile lo avrebbe condotto ad alcuni suoi numi tutelari come Francesco De Sanctis, Francesco Mastriani e Vittorio Imbriani. Il lettore che leggerà La “Segnorina”, Pam! Pam!, Tuppino, L’Americano, L’Interregno, I capricci della febbre, Mazza e panelle vedrà davanti ai suoi occhi come la poesia sia rivestita di letteratura o come la letteratura sia lirica. Questo accade, per dirla con Durante, solo quando si prende a morsi la vita. Non a caso Enzo Golino dei racconti poetici di Spaccanapoli disse: “Quasi un dono naturale”.

La verità è che nella prosa di Rea vi è la stessa vitalità che attraversa la Napoli e il Mezzogiorno della fine della Seconda guerra mondiale. Quel mondo doloroso e insieme splendente, come lo ritrasse anche Curzio Malaparte, vive ancora nella scrittura di Rea che ancor prima di Carlo Emilio Gadda mischia e sposa dialetto e lingua donando al lettore non solo le storie e le immagini ma gli stessi sentimenti di candore e crudeltà tramutati in linguaggio espressivo. Così nelle pagine di Rea c’è tutto un mondo – la plebe – che i progressisti del tempo, insomma, i comunisti, non sapevano come prendere e celavano, mentre lo scrittore della mitica Nofi svelava. E’ qui che nasce anche l’equivoco critico-letterario del Rea neorealista che, invece, è prima di tutto il poeta della plebe che c’era e che c’è in ognuno di noi, anche il più aristocratico di ognuno di noi, com’era aristocratico e plebeo Domenico Rea. Il quale, del resto, arrivò alla letteratura, anzi, alla scrittura non con gli studi ma per intima necessità di vita: aveva una febbre quartana che non passava, i genitori lo portarono in visita da uno psichiatra del manicomio di Nocera che gli disse: “Quando ti senti meglio? Cosa ti piace fare? Scrivere? Allora scrivi, ecco la cura”. Se ci si fa caso, la scrittura di Rea è attraversata da un lavorato stato febbrile che la rende sempre viva. Anche i soggetti che ne sono ritratti, da Gesù, fate luce a Una vampata di rossore, fino a Miluzza di Ninfa plebea, sembra che abbiano addosso la febbre o l’argento vivo o chissà ancora che cosa che li fa uscire dalla pagina come se fossero carne viva.Si narra che Rea iniziò a scrivere le prime righe di Ninfa plebea un pomeriggio di piena estate, nella casa di Posillipo, con le serrande abbassate per il calore, le stanze vuote, la città deserta e le note del quintetto opera 34 di Brahms che ruotavano sul giradischi. E’ la febbre che ritorna ma che dà una prosa come la notte “dolce e chiara e senza vento” di Leopardi ne La sera del dì di festa: “Il carro si fermò davanti al basso da cui fu lanciata la scaletta per far salire Nunziata, Miluzza…”.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.