Il “caso Scurati” ha riportato in primo piano la questione fascismo-antifascismo, e stavolta non proprio nell’imminenza di elezioni. Dunque, ancora una volta siamo chiamati a verificare il tasso di fascismo-antifascismo nelle nostre vene di italiani e specialmente di quelli che sono al governo e di chi li ha votati. Da notare che, dopo la lezione di Renzo De Felice, la storiografia tace, con qualche modesta eccezione rappresentata da sortite televisive o da pamphlets per lo più livorosi. Qui mi preme sottolineare come nel discorso pubblico sia pressoché assente l’imparzialità e come persista l’obbligo della damnatio memoriae per un periodo della nostra storia o, nel migliore dei casi, del confino fra due parentesi della storia patria.
Bisogna ammettere che una tale tendenza appartiene quasi soltanto alla nostra cultura. Basti pensare alla Francia, orgogliosa di tutta la propria storia e segnatamente di quella incarnata da Napoleone, un gigante abbattuto da una coalizione europea e che aveva ereditato i princìpi dell’Illuminismo, trasfondendoli e trasformandoli in una visione imperiale e autoritaria, così dividendo non solo l’Europa, ma il suo stesso paese; un gigante che aveva provocato guerre con centinaia di migliaia di morti e che aveva persino sulla coscienza l’uccisione di un suo oppositore, quale il duca d’Enghien; un gigante osteggiato in patria da repubblicani e legittimisti e che pure, a meno di vent’anni dalla morte in esilio, regnante il re borghese Luigi Filippo, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nell’Hotel des Invalides (costruito da Luigi XIV, tanto per rimarcare la continuità nella storia di Francia).
Da noi, non è soltanto il fascismo ad essere incappato in questa damnatio memoriae: il nostro “disprezzo selettivo” per la storia d’Italia ha coinvolto, per motivi e in tempi diversi, dinastie come quelle dei Savoia e dei Borboni, che pure nei decenni hanno accumulato non solo errori e perfino crimini, ma anche indubbi meriti, a partire, per i Savoia, dal decisivo contributo all’unità d’Italia. Eppure, nessuno considera più che folklore le modeste reviviscenze e nostalgie monarchiche, di questa o di quella dinastia.
Dunque, il fascismo: fenomeno da consegnare alla storia o pericolo incombente sulla democrazia? Sotto il profilo storico, vanno notati due argomenti, entrambi legati alle contingenze, e cioè da un lato lo stretto rapporto tra il fenomeno e il suo capo, Benito Mussolini; dall’altro, lo scenario internazionale dell’epoca. E allora, a meno di voler aderire all’interpretazione di Umberto Eco, che parlava di “fascismo eterno”, ogni ipotesi di ricostituzione del Partito Nazionale Fascista e perfino ogni ipotesi di aggiornamento e adeguamento ai nostri tempi appare quanto mai improbabile.
E’ vero che ci troviamo in una fase critica della democrazia rappresentativa – non solo in Italia – e che, parallelamente, stiamo assistendo al rinvigorirsi di regimi autoritari di varia natura (laici o religiosi); ed è anche vero che, in termini quantitativi di popolazione, in termini di ricchezze naturali e in termini di crescita economica, gli Stati dotati di strutture genuinamente democratiche sono in minoranza nel pianeta; ma questo non legittima i timori di una (assai improbabile) rinascita dei fascismi, neppure in quei paesi dove appaiono in aumento partiti e movimenti di estrema destra (ammesso che il fascismo possa essere etichettato in questo modo). E lasciamo perdere le polemiche di bassa lega sulla presunta compressione delle libertà e sulle sciocchezze del tipo “tele Meloni”, dopo l’avvento dell’attuale governo di centrodestra, la cui cifra più evidente consiste nella riconfermata fedeltà atlantica (altro che fascismo!).
Ma torniamo alla questione principale, e cioè il mancato inserimento di quella rivoluzione nella storia nazionale e il manicheismo ad esso connesso (da una parte i “cattivi” fascisti, dall’altra i “buoni” antifascisti, stalinisti compresi). Nessuno storico avveduto, nessun politico serio dovrebbe riconoscersi in una simile visione in bianco e nero, senza grigi. Si badi bene: qui non si vuole procedere ad alcuna “riabilitazione” del fascismo, responsabile di colpe e di errori che a volte sconfinarono negli orrori (la guerra e le leggi razziali su tutti); ci augureremmo soltanto di essere capaci di una serena valutazione di quel periodo, a partire dalle scuole e dalle università (ma in tempi di cancel culture e di “pensiero unico”, lo scetticismo è d’obbligo).
Non è possibile qui tratteggiare neppure per grandi linee qual era la situazione internazionale all’avvento del fascismo: basterà ricordare gl’infausti trattati di Versailles, forieri delle tragedie partorite dalla Seconda Guerra mondiale, e la rivoluzione bolscevica. Ci limitiamo a considerare quasi inevitabile la partecipazione dell’Italia fascista al conflitto, data la posizione geografica della nostra penisola, e perfino la sventurata alleanza con il Terzo Reich, non potendo seguire la strada della neutralità come la Spagna, esentata da quella scelta per la cruenta guerra civile che l’aveva sconvolta fino a pochi anni prima. D’altra parte, i principi del fascismo erano ben lontani da quelli del materialismo consumistico di marca statunitense e da quelli del marx-leninismo di stampo sovietico.
Ma prima dell’immane conflitto, vi erano stati – ce lo ricorda De Felice – anni e anni di consenso generalizzato, fondato soprattutto sulla modernizzazione del paese – fondamentalmente agricolo, povero e con masse di analfabeti – senza contare la ripresa di quelle campagne di colonizzazione nate con la sinistra crispina al governo, ma condotte senza la rapacità di altre potenze dell’epoca, quali la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio. A titolo di esempio non esaustivo e ad uso dei più giovani, riporto le principali riforme varate dal fascismo in meno di vent’anni:
– 1925. Istituzione dell’ONMI Opera Nazionale Maternità e Infanzia
– 1925. Creazione dell’Istituto Luce, con la finalità di diffondere la cultura popolare e l’istruzione per mezzo della cinematografia
– 1927. Entrata in vigore della Carta del Lavoro, documento destinato a disciplinare i rapporti fra Capitale, Impresa e Lavoro, sulla base della dottrina del corporativismo e dell’etica del lavoro.
– 1929. Sottoscrizione dei Patti Lateranensi fra lo Stato e la Chiesa cattolica. Tale iniziativa, che va sotto il nome di Concordato, poneva fine alla diatriba con l’Autorità Ecclesiastica, dopo la breccia di Porta Pia e l’istituzione di Roma capitale d‘Italia, e sanava la ferita inferta alle coscienze del popolo italiano, in larghissima maggioranza cattolico.
– 1930. Entrata in vigore del nuovo Codice Penale, intitolato al suo principale estensore, il ministro guardasigilli Alfredo Rocco.
– 1932. Prima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
– 1932. Istituzione del Centro Sperimentale di Cinematografia
– 1933. Costituzione dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione industriale, perno delle relative politiche dello Stato.
– 1933. Nasce l’INAIL, dalla fusione fra Cassa Nazionale degli Infortuni e le Casse private delle Assicurazioni, con il conseguente riassetto del comparto assicurativo per gli infortuni sul lavoro.
– 1933. Dalla trasformazione delle Casse Nazionali per la Previdenza l’Invalidità e la Vecchiaia, nasce l’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale, da cui deriverà l’odierno INPS.
– 1936. Posa della prima pietra del complesso di Cinecittà
– 1936. Entrata in vigore della Legge Bancaria, con la conseguente unificazione e razionalizzazione della disciplina del settore.
Da notare che tali realizzazioni hanno in gran parte proseguito la loro vigenza – e alcune sono tuttora in vigore – con l’avvento della Repubblica: malgrado i numerosi studi pubblicati, infatti, sono ancora da approfondire le linee di continuità fra il passato Regime e le attuali realtà istituzionali, sociali e culturali dell’Italia di oggi.
Di passata, aggiungiamo a quelle realizzazioni la bonifica pontina, la fondazione di città e il gigantesco sforzo urbanistico in tutta Italia, non senza notare che analoghe opere furono eseguite dal barone Haussmann e dal marchese di Pombal quasi esclusivamente a Parigi il primo e a Lisbona il secondo. Inoltre, ancora fino a pochi anni fa, strade, porti e ferrovie dei paesi africani che furono nostre colonie costituivano quasi le sole infrastrutture di quei paesi (prima che sopraggiungessero cinesi e russi…). E tralasciamo i successi italiani nelle scienze, nella cultura, nello sport, fra invenzioni (Marconi), premi Nobel (Pirandello e Deledda) e campionati mondiali di calcio.
Ancora: violenza del fascismo. E’ vero: lo squadriamo delle origini fu violento, ma in risposta alle violenze “rosse”, e i dissidenti avevano vita dura, fra confino, esilio e clandestinità, ma anche l’Italia pre e post-risorgimentale non brillava per pluralismo, tutela dei diritti individuali e rispetto dei dissidenti. Andiamo poi al costume dell’epoca e paragoniamo la nostra situazione a quella che in America determinò l’ingiusta condanna ai nostri connazionali Sacco e Vanzetti o alle tremende purghe staliniane. Quanto al seguito, non vanno dimenticate la campagna persecutoria del maccartismo negli USA e la “rivoluzione culturale maoista” – di cui ci ha fornito uno stralcio visivo la fiction di Netflix “il problema dei tre corpi”, tratto dall’omonimo bestseller di Liu Cixin. E tralasciamo anche i genocidi che hanno infestato la storia, da quello dei nativi americani a quello della Cambogia di Pol Pot, passando ovviamente per la Shoah. Quanto agli episodi oscuri, che non sono mancati in nessun regime, basterà ricordare quelli che vanno sotto il nome di “strategia della tensione” e che hanno costellato la nostra “prima repubblica”.
Come concludere? Con l’auspicio che si smetta di giudicare il passato alla luce delle categorie, della sensibilità e dei costumi del presente e che si possa studiare la nostra storia con animo pacificato, senza dare luogo a una delle forme più subdole di censura; alludiamo all’autocensura di chi, per non essere additato come nostalgico del fascismo, rifugge da quello che è il primo dovere di ogni studioso: la revisione di quanto gli è stato tramandato e la libera espressione di questo lavoro pubblicistico e scientifico.