Se è vero che delle etichette e delle definizioni usate per circoscrivere periodi e convogliare in un linguaggio comune ogni epoca non bisogna abusare, è pur vero che non è privo di significato il fatto che sia del tutto scomparso l’uso del prefisso “neo”. Si pensi alla letteratura, a termini molto in voga nel Novecento come neorealismo, neosperimentalismo, neoavanguardia, nouveau roman. Oppure, in altri ambiti, sia pure su piani differenti, alla filosofia (neoidealismo), al cinema (nouvelle vague), all’economia (neocapitalismo), alla politica kennediana (nuova frontiera). Siamo stati immersi, per quasi un secolo, in una stagione in cui quasi tutte le discipline avvertivano il bisogno di ridisegnare i propri statuti, sulle orme di quanto di utile era stato fatto e affermato in passato, tracciando una linea di non separazione in cui, comunque, si forgiava un’operazione che “trasmettesse la sensazione di lasciare un segno nel tempo a venire”. Da almeno trent’anni questa tendenza si è arrestata. Da quando abbiamo scoperto la categoria della posterità (o della condizione postuma) abbiamo smesso di pensarci come individui proiettati verso il futuro e ci siamo ripiegati verso un uso sovrabbondante – spesso un abuso – del suffisso “post”.
Giuseppe Lupo, autore di diversi saggi sulla cultura del Novecento e raffinato indagatore della nostra contemporaneità, nel suo ultimo lavoro scandaglia nel profondo il malinteso senso della modernità che ha occupato uno spazio considerevole nella geografia di fine millennio e continua ad influenzare il nostro pensiero e i nostri discorsi. “Il postmoderno è entrato nel nostro orizzonte culturale negli anni ottanta”, scrive, ”senza peraltro essere mai stato identificato in maniera del tutto convincente”. E’ una sorta di “male oscuro” di cui nessuno sa trovare l’origine e rispetto al quale nessuno azzarda una diagnosi. Lo subiamo. Ne sopportiamo i limiti con insofferenza. Raramente riusciamo a intravedere una via d’uscita. Eppure, riflette l’autore di questo interessante e acuto saggio, “mai come in questo momento, dal punto di vista culturale e morale, si renderebbe necessario guarire da questa ambigua condizione di posterità, occorrerebbe cioè dimenticare di sentirci per forza nati all’indomani di qualcuno, convincerci che il grande Novecento è alle nostre spalle, superato ormai da tempo e che la sua morte, se anche dovesse conservare in ciascuno di noi i segni del lutto, dovrebbe lasciarci liberi dal suo peso, senza le catene che ci impediscono di vivere il nuovo millennio come abbiamo sperato”.
Per poterlo fare – per poter riprendere l’uso del “neo” in sostituzione del “post” – occorre recidere il cordone ombelicale con il secolo “terribile e maestoso” di cui ci sentiamo ancora figli, ripensare alle istituzioni culturali (i libri e gli archivi, le università e la scuola) come a strumenti grazie ai quali tornare a ricomporre le rovine. Insomma, per dirla con il titolo biblico-sapienzale di un saggio del 1923 di Giuseppe Antonio Borgese, è Tempo di edificare. Borgese si riferiva, in particolare, alla disciplina del romanzo, che in quel periodo languiva nelle sacche di autobiografismo e frammentarietà. Nell’ opera si agitava, però, il fermento critico di un autore che stimolava un cambiamento di passo per uscire dall’apocalisse di una nazione mutilata dalla Grande Guerra e procedere alla rifondazione di un’Italia disorientata.
Il testo di Giuseppe Lupo esamina una ad una le tappe dei cambiamenti che hanno interessato il nostro Paese, offrendo al lettore una controstoria dell’industria italiana, una “narrazione” che recupera il senso profondo dei passaggi e dei cambiamenti epocali che hanno inciso nel tessuto sociale e cultuale del nostro Paese, impresso una svolta nell’economia e nella politica, infrangendo equilibri e frantumando la linea di continuità tra passato e futuro. Fino al tramonto della civiltà contadina e l’avvento della industrializzazione.
Da appassionato studioso della storia italiana, ripercorre la tappe del boom economico attraverso la rilettura del “paradigma interpretativo del moderno” e la disanima attenta di alcune figure, da Vittorini a Testori, da Fortini a Mastronardi, da Calvino a Pasolini.
Nel viaggio alla scoperta della narrativa della fabbrica dagli anni trenta del secolo scorso a oggi – dal sogno di Olivetti all’odissea dell’Ilva, dalla maestosità della Pirelli, ingabbiata in una elegante struttura di vetro e di metallo, monumento, non un rudere, una specie di celebrazione di un’epoca passata ma senza retorica del ricordo, alla desolante immagine della spianata fuligginosa di Bagnoli, a Napoli, dove il progresso ha “l’aspetto di un cimitero dove non abita nemmeno più la memoria”, fino alla nuova frontiera della duplicazione digitale dei prodotti – le vicende dell’industria italiana, tra visioni, modelli, sospetti, giudizi spesso severi e corrosivi, propongono il ritratto persino paradossale di un’antimodernità che si rivela incapace di decodificare fenomeni che chiedevano solo di essere compresi.
Se si volesse ragionar per paradossi, a proposito di officine e di “storie prima della storia”, l’inizio della letteratura di fabbrica potrebbe essere rinvenuto in due punti della Commedia di Dante, in particolare nei versi che descrivono l’arsenale di Venezia, il cantiere navale dove gli operai spalmano pece, ravvolgono funi, modellano remi e chiglie con le pialle, rattoppano vele, e quelli che racconta Vulcano, dio del fuoco e della metallurgia, che secondo i miti greci lavorava nella “focina negra”, una spelonca nell’arcipelago delle Eolie. “Saldando le due citazioni – scrive Lupo – possiamo azzardare che Dante sia stato il primo degli autori in lingua italiana ad avventurarsi nell’inferno di un’officina”.
Nella visione del Poeta, comunque, non ci troviamo ancora all’interno di quei testi narrativi cui fanno da sfondo, da un lato, la dimensione operaia, corredata da riferimenti a ciminiere, turni , mense, sirene e, dall’altro, gli uffici, le sale riunioni, gli spazi riservati a funzionari e dirigenti. Siamo, evidentemente, ancora lontano da quell’Italia del secondo dopoguerra che si è definitivamente trasformata in un paese a vocazione industriale e dove la nozione di officina-bottega artigianale si è modificata in officina-fabbrica.
Ad eccezione del Futurismo, che entusiasticamente promosse le macchine come archetipi del moderno – annota Giuseppe Lupo – l’interpretazione degenerante della vita operaia si attesta a topos della letteratura industriale, una lente attraverso cui osservare ciò che avviene intorno alle catene di montaggio. Interessante la riflessione che propone nel merito l’autore. Riprendiamone alcuni tratti.
“Si potrebbe riflettere a lungo sui motivi per i quali il paradigma infernale agisce in profondità nel tessuto dei testi, sia dentro il perimetro che circoscrive la letteratura della prefabbrica (quella appunto relativa al periodo in cui in Italia ancora non esiste un’industrializzazione diffusa) sia a cerniera del nuovo millennio, in un momento in cui si assiste al tramonto della fabbrica tradizionale e all’avvento di una realtà produttiva (le società multinazionali) che ne raccoglie l’eredità, modificando contenuti e forme. Molto probabilmente la questione non va considerata soltanto un’eredità dantesca. Semmai potrebbe scaturire dall’antico sospetto che cova in seno alla civiltà umanistica nei confronti della civiltà tecnologica, di cui l’industria è stata diretta applicazione….Un discorso del genere peccherebbe di parzialità se le ragioni venissero individuate esclusivamente in una sorta di spaesamento, se insomma non si tenesse conto di altri, ben più numerosi pregiudizi che con l’affermarsi dell’industria avrebbero condotto gli intellettuali ad assimilare la fabbrica a luogo di contrapposizione, a fulcro dello scontro tra classe operaia e imprenditori, tra solidarietà e profitto, tra produzione e sfruttamento”.
L’argomento scivola facilmente, confessa l’autore, verso una zona apparentemente estranea all’orizzonte della letteratura, ma che la letteratura ha fagocitato, facendosi essa cassa di risonanza di quei fenomeni di rivendicazione sociale e sindacale, dei problemi legati alla condizione operaia, agli infortuni sul lavoro, ai rapporti tra maestranze e imprenditori – in cui si posizionano, per esempio, Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, Tuta blu di Tommaso di Ciaula o Sirena operaia di Alberto Bellocchio – che hanno attraversato, tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni settanta, le stagioni della ricostruzione, del boom economico, dell’autunno caldo e della crisi petrolifera.
E’ chiaro che non tutta la letteratura ispirata dall’industria andrebbe analizzata in chiave politico-ideologica. Però non si può negare che gran parte dei testi “esprima più di una parentela con le questioni emerse dallo scontro tra i partiti di area marxista e le formazioni di ispirazione cattolica, un dibattito che nell’immediato dopoguerra ha visto fronteggiarsi, almeno a livello teorico, i modelli del capitalismo e del socialismo reale.
Per perimetrare il campo della ricerca nell’ambito di opere omogenee venute alla luce negli anni in cui l’Italia abbandona l’economia agricola e artigianale per compiere definitivamente il salto verso l’industrializzazione e attestarsi tra le prime nazioni manifatturiere del mondo, dal punto di vista cronologico, l’autore si sofferma sul tempo che corre tra il periodo aureo descritto da Tre operai di Carlo Bernari, pubblicato nel 1934, e la Dismissione di Ermanno Rea, uscito nel 2002. Due romanzi che fanno da controluce di un Meridione industrializzato a macchia di leopardo con un fulcro geografico ben preciso: gli stabilimenti dell’Ilva di Bagnoli, luoghi che sembrano esasperare il contrasto tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale, luoghi che assurgono a simboli di un’ascesa e di una caduta. “Questi luoghi svolgono la funzione di palcoscenico in cui registrare l’avvento e l’agonia della modernità, in un’altalena che vede prima l’affermarsi della civiltà tecnologica come soddisfacimento dei bisogni primari, poi le operazioni di smontaggio degli impianti”. Nel mezzo ecco emergere, in un volume denso di riferimenti letterari puntuali, alcuni ritratti che aiutano a sconfiggere l’ideologia del “post” e fanno strame di una modernità malintesa.
Metropolis , i film di Fritz Lang del 1927, comincia con lancette di orologi che scandiscono i secondi e i macchinari in movimento. Le scene sono il paradigma della nuova epoca. E’ l’America che Adriano Olivetti vede per la prima volta nel viaggio compiuto tra l’estate del 1925 e il gennaio del 1926. E’ una nazione che abbiamo imparato a conoscere attraverso il filtro immaginario che attinge ai romanzi di Francis Scott Fitzgerald: un luogo di sfrenata euforia, di opportunità economiche, di progressi tecnologici. Olivetti ci rimane pochi mesi. Ma non spende il suo tempo soltanto per visitare fabbriche e catene di montaggio, piuttosto vuole comprendere lo spirito di quella civiltà così distante dai parametri europei e scoprire i segreti del successo. Nelle lettere che dall’America scrive al padre e alla sorella riverbera il senso profondo di un’esperienza che lo condurrà, più tardi, a lasciare un segno indelebile nello sviluppo della industria italiana, corroborata da una qualità imprenditoriale che ne farà l’archetipo di un modello proiettato verso l’obiettivo di acquisire fette di mercato, disposto persino ad abbracciare con convinzione il verbo taylorista, ma senza perdere di vista l’idea del progresso come conquista civile, come occasione democratica di crescita e di riscatto. La rivista “Comunità”, fondata nel marzo del 1946, diventa una fucina straordinaria di creatività, filosofia, urbanistica, arte, innovazione. La fabbrica di vetro, ad Ivrea, è lo specchio di quell’ umanesimo della fabbrica che lo stesso Adriano Olivetti, descriverà nei tre libri editi in poco più di quindici anni, fra il 1946 e il 1960: L’ordine politico delle Comunità, Società Stato Comunità e Città dell’uomo.
Ivrea non ha mai perso l’aspetto di una città-giardino, esattamente come mostrava la foto che accompagnava l’editoriale d’apertura della rivista Comunità, a firma di Ignazio Silone, e se le è stato riconosciuto un ruolo di prim’ordine nelle rotte della modernità è perché in essa si condensa il senso di una stagione in cui il Novecento ha raggiunto uno dei suoi traguardi più rilevanti: quello di sconfessare il paradigma di Rousseau, secondo cui il progresso genera un’umanità infelice, riscrivendo da cima a fondo un patto alternativo alle consuete manifestazioni generate dalla civiltà delle macchine, dai conflitti di classe e dall’alienazione operaia, dallo sfruttamento egoistico dell’uomo e dall’ottuso ed esclusivo predominio del profitto.
L’Olivetti di Ivrea significò “muoversi controcorrente” rispetto alle abitudini esasperate di un certo fordismo, significò un’industria dal “volto umano”, significò il superamento di molte contraddizioni del capitalismo. La possibilità, in fondo, di rimediare agli errori di sempre con l’impiego di una ricetta ideale a cui oggi guardiamo con nostalgia e un certo rimpianto.
Il secondo ritratto è quello di Leonardo Sinisgalli che in uno scritto lungo non più di otto pagine e corredato di disegni a penna di Giò Ponti, pubblicato nel 1937 con il titolo Ritratti di macchine, narra: “Ho trascorso alcuni giorni di questa ultima primavera in un paese dell’Umbria per farmi un’esperienza di fabbrica. Quando gli operai avevano abbandonato i reparti, mi piaceva andare a trovare le macchine in riposo, di coglierle nella loro stanchezza”. L’abitudine di conoscere le macchine diventerà una costante nel rapporto tra Sinisgalli e la fabbrica. Sin dai primi anni trenta, a eccezione dei periodi di lavoro presso la Finmeccanica, l’Agip-Eni, l’Alitalia e la Mobil Mim, stringe infatti legami con importanti aziende milanesi, “Ha inizio – sottolinea Lupo – il lungo dialogo tra umanesimo e tecnologia che fornisce un carattere inedito alla sua complessa personalità e ne avvicina la fisionomia ai modelli di intellettuale- scienziato incarnati cinque secoli prima da Leon Battista Alberti e Leonardo Da Vinci.
Nel terzo ritratto, dedicato a Giovanni Pirelli, emerge la sua figura irrisolta, antiborghese, addirittura disertore, come arrivò a scrivere Indro Montanelli dopo l’addio all’azienda di famiglia. La sua vita e le sue esperienze imprenditoriali, secondo Lupo, conservano i tratti di una lunga predisposizione all’inquietudine e riassume gli esiti più rappresentativi di un certo Novecento.Questi ritratti, nelle loro differenze e nei tratti comuni, danno la misura di un’epoca, l’epoca della modernità. Conclusa la fase dell’epica, è cominciata la stagione della cronaca, che è l’esatto contrario, cioè il racconto di un tempo breve e frammentato. Il libro di Giuseppe Lupo ci invita a rettificare l’immagine di progresso e con essa a ridare senso, nel mondo contemporaneo, alla modernità. In che modo? Definendone l’identità. Secondo l’autore di questo interessante volume, il terzo millennio ci parla con un linguaggio che non abbiamo ancora le chiavi per interpretare. A seguito di quanto accaduto dopo il febbraio del 2020, con i riflessi di una pandemia che ha contribuito a disvelare il carattere liquido del lavoro quotidiano in una dimensione che fino a poco tempo fa potevamo percepire nelle forme teoriche annunciate da Bauman, urge rivedere alcune categorie interpretative. In questa ricerca appare persino fuorviante la formula coniata da Eric J. Hobsbawn nella sua opera più nota Il secolo breve. E con essa l’idea stessa di postmoderno e posterità.