• 3 Dicembre 2024
Cultura

Wendell Berry (1934) è una delle voci più forti che si odono nell’America contemporanea. Romanziere e saggista è divenuto negli ultimi decenni un autore di culto. Il suo ecologismo conservatore, se così lo si può definire, dà l’impronta ad una innovazione radicale nel considerare l’ambiente. Ed i suoi versi che, dopo lunga attesa, ora possiamo leggere in italiano, sono il cuore di un quadro di smisurata grandezza nel quale narrativa, critica culturale, analisi agricole e perfino considerazioni sull’alimentazione offrono una interpretazione singolare e “totale” di una visione del mondo che affascina ed atterrisce al tempo stesso per motivi riconducibile alla bellezza descritta e difesa della natura ed allo stravolgimento della stessa che mina l’esistenza di popoli e nazioni.

La sua opera complessiva, profetica e attualissima, è un canto incessante alla natura come potenza rigeneratrice. Le edizioni Lindau ce ne offrono una prova di spettacolare bellezza ed efficacia evocativa con lo splendido volume (in parte fotografico e dunque emblematico di ciò che liricamente significano i versi di Berry)  curato da Riccardo Duranti:  Perché l’amore tocchi terra (pp. 241, € 24). Si tratta di una corposa silloge messa insieme traendo il materiale da numerose raccolte dell’autore che si apre con questi versi suggestivi: “Questo non è lavoro a pagamento./Con questo investimento/ci si costruisce un posto; ci si costruisce un modo/ perché l’amore tocchi terra./ Nella sua ambizione/ e nella sua avidità violenta,/ il mondo rivolta contro/ questa possibilità,/ eppure il mondo sopravvive/ grazie alla sopravvivenza/ di questo generoso lavoro d’amore”.

Ma è sempre più difficile che l’amore tocchi terra annichilita dalla selvaggeria che Berry denuncia. Ed il suo rifugio, come per innalzare una preghiera al  Creatore, ogni domenica è il bosco che circonda la sua fattoria nella  Contea di Henry, sulle rive del fiume Kentucky. Là trova la quiete che ne provoca la rigenerazione tra gli alberi che si muovono “prima solo col vento/ e poi con la forza di gravità./ Nell’immobilità degli alberi/ mi sento a casa.”

La pace delle cose selvatiche è il fine ultimo della ricerca di Berry che tanto nella poesia, quanto nei romanzi e nei saggi la esalta come la condizione per sopravvivere: “Vado tra gli alberi e mi siedo tranquillo./ Attorno a me si acquietano tutte/ le mie faccende come cerchi nell’acqua./ I miei compiti rimangono al loro posto,/ dove li ho lasciati, e dormono come bestie”.

La poetica suggestiva e coinvolgente di Berry, rimanda al suo pensiero agricolo-filosofico e sembra respirare nelle storie che inventa per raccordare il suo spirito anarco-conservatore con un sentimento quasi nascosto per pudore della bellezza che intende preservare. Innestando una polemica aspra e senza riguardi nei confronti dello sfruttamento. La poesia sembra calmare un po’ i furori, ma quando impugna l’ascia della battaglia alla modernità non lo ferma nessuno : “Coloro che usano il mondo presumendo/ che la loro conoscenza sia sufficiente/ distruggono il mondo”.

È la sua ira funesta. Quella che nei testi più politicamente scorretti amplia fino a farne una trattazione complessiva.

“Per cinquanta o sessant’anni – scrive –  ci siamo cullati nell’illusione che finché avremo denaro avremo cibo. Ci siamo sbagliati. Se continueremo ad offendere la terra e il lavoro che ci consentono di nutrirci, la scorte alimentari diminuiranno e ci ritroveremo con un problema molto più grave del crollo di quest’economia di carta. Il Governo non sarà in grado di produrre cibo semplicemente regalando centinaia di miliardi di dollari alle società di agribusiness“.

Così parlò Wendell Berry. Era l’autunno del 2008. Da pochi mesi era divampata la più grande crisi economico-finanziaria moderna. Il mondo era in ginocchio. L’Occidente si sentiva perduto. Il visionario contadino-scrittore del Kentucky aveva formulato una diagnosi che gli gnomi dell’alta finanza e i loro  “dipendenti” politici, arroccati negli impotenti Parlamenti e nelle vacillanti Cancellerie dell’Est e dell’Ovest, avrebbero ignorato pur di non ammettere che l’ “economia di carta” aveva inferto un colpo mortale alla Natura, ai diritti dei popoli, alla Terra Madre corrotta dall’avidità.

Nutrirsi, elementare è fisiologico bisogno umano, non è più un atto naturale, ma il prodotto della contraffazione del mercato alimentare che serve altri scopi a cominciare e dal sostentamento della “finanziarizzazione” dell’economia e dall’incitamento all’abuso dell’inessenziale. E spinge nel ritenere che mangiare non sia semplicemente un “atto agricolo”, vale a dire il prodotto finale del raccolto secondo le regole del rispetto della terra. E’ il primo caposaldo di un moderno “conservatorismo” che apre alla difesa dell’ambiente e della comunità umana tutt’una con il mondo circostante a cui appartiene. Berry, interrogandosi sul “piacere di mangiare” connesso alla natura dell’uomo e ormai svilito nelle varie forme che orridamente ci sommergono attraverso la televisione ed il web, osserva in Mangiare è un atto agricolo (Lindau, 2015): Spesso, alla fine di una conferenza sul declino della vita rurale e dell’agricoltura in America, qualcuno dell’uditorio chiede: ‘Cosa può fare chi abita in città?’ ‘Mangiare responsabilmente’ rispondo di solito. Naturalmente cerco di spiegare cosa intendo con questa espressione, ma mi sembra sempre di non aver detto abbastanza. Adesso vorrei cercare di offrire una spiegazione più ampia. Comincio dall’affermazione che mangiare è un atto agricolo ed ecologico. Mangiare conclude il dramma annuale dell’economia alimentare che inizia con la semina e la nascita. Molti mangiatori non sanno più che questo è vero. Pensano all’alimentazione come produzione agricola, forse, ma non si considerano parte dell’agricoltura. Si considerano “consumatori”. Se pensano un po’ più a fondo, devono riconoscere di essere consumatori passivi.(...) La condizione del consumatore passivo di alimenti non è una condizione democratica. Una delle ragioni per mangiare responsabilmente è di vivere liberi. Ma se esiste una politica alimentare, esiste anche un’estetica alimentare e un’etica alimentare, nessuna delle quali è separabile dalla politica. Come il sesso industriale, anche l’alimentazione industriale è diventata una cosa povera, degradante e meschina. Le nostre cucine e gli altri luoghi in cui si mangia assomigliano sempre più a distributori di benzina, e le nostre case somigliano sempre più a motels”.

Wendell Berry a ottantasette anni, oltre alla scrittura, continua a dedicarsi  all’agricoltura mandando avanti la sua fattoria nel Kentucky presso la cui università si laureò ed insegnò per lungo tempo letteratura e scrittura creativa prima di approdare a quelle di New York e della California, fra il 1957 ed il 1965 quando ritornò nel Kentucky stabilendosi nella fattoria dove la sua famiglia risiede dal 1800. Vi coltiva 125 acri seguendo metodi tradizionali e biologici. In tutti i suoi scritti Berry sottolinea la necessità di salvaguardare e conservare l’ambiente, l’agricoltura, la famiglia, le comunità tradizionali, l’armonia fra l’uomo e la natura. E’, la sua, una visione profondamente spirituale dell’esistenza che ha indotto il “New York Times” a definirlo come “il profeta dell’America rurale”.

I romanzi di Berry sono esemplificazioni, letterariamente assai suggestive, della sua visione del mondo nei quali racconta la storia di una comunità,  con le parole  dei protagonisti dei suoi romanzi struggenti, poetici, spiritualmente coinvolgenti, sul cui sfondo si muovono i valori della vita rurale. Con la forza di una narrazione limpida, Barry fa emergere caratteri e passioni convogliandoli in una dimensione che può sembrare irreale, ma che tuttavia, fino a quando gli effetti dell’individualismo esasperato non hanno avuto la meglio, ha connotato l’esistenza di società sane. La piccola cittadina americana, vera protagonista del romanzo, scossa dai grandi eventi che hanno segnato il secolo scorso, ha resistito fin quando ha potuto all’onda d’urto che pure su di essa si è abbattuta. Poi si è dovuta arrendere. Ma la vecchia signora e poi suo nipote si sono incaricati di testimoniare non una nostalgia, ma un altro modo di vivere, quello comunitario, appunto, nel quale tutto si conserva ed ogni cosa si rinnova nell’ordine naturale.

L’attività letteraria non ha mai distolto Berry da quella saggistica. Pur vivendo appartato rispetto alla società letteraria, “vigila” sulle devastazioni della modernità cui contrappone il “ritorno alla terra” e allo spirito comunitario per scongiurare la catastrofe del Pianeta annunciata dal totalitarismo dell’economia finanziaria che ha fatto strame dell’ambiente e del corretto uso delle risorse naturali. Nella raccolta di scritti apparsa in Italia, sempre per Lindau, La strada dell’ignoranza, l’accento sul “comunitarismo” è molto  marcato.

Con modulazioni assai suggestive, Berry esprime una critica profonda, ancorché sostanziata da fatti inoppugnabili e lontana da ideologismi di maniera, all’ “economia faustiana” che ha cloroformizzato le anime e reso ciechi i politici, in nome del raggiungimento di profitti che stanno avvelenando, oltre all’America, tutto l’Occidente. Nel pronunciare una condanna senza appello dell’“american way of life”, Berry, come esplicita in questo prezioso vademecum di sopravvivenza possibile, non si limita a formulare una riflessione acuta e fuori dagli schemi su economia, immaginazione e conoscenza, ma incita a recuperare il cammino della conservazione dei valori primari e naturali al fine di rifondare un mondo che sta sprofondando. Cominciando, fedele allo spirito che caratterizza tutta la sua opera, dalla difesa della terra, dell’agricoltura, dell’alimentazione compatibile con culture e tradizioni ancestrali.

«Dobbiamo renderci conto – scrive – che i tentativi sregolati del comunismo e del capitalismo industriali sono ugualmente falliti. Le pretese di produttività, redditività ed efficienza, di crescita, benessere economico, potere, meccanizzazione e automazione senza limiti, per un certo tempo possono arricchire e conferire autorità ai pochi, ma prima o poi ci distruggeranno tutti». Insomma, per Berry, i livelli di “vivibilità” di una comunità non si possono misurare con i valori del Pil o con i bilanci delle aziende.

C’è dell’altro che fa parte del nostro codice genetico innestato su una corretta utilizzazione della natura, rispettandola e conservandola, per garantirci piaceri, desideri, longevità, libertà, autosufficienza. Una comunità in buona salute, dice Berry, non è soltanto “una comunità esclusivamente umana”, ma un insieme di esseri “in un determinato luogo, più il luogo stesso: suolo, acqua, aria, e tutte le famiglie e le tribù di creature non umane che ne fanno parte”. Per questo “gli obiettivi di produzione, profitto, efficienza, crescita economica e progresso tecnologico non implicano e in pratica non rispondono ad alcun criterio sociale o economico. Ma esiste un altro insieme di obiettivi che al contrario comportano dei criteri, e sono la libertà (quasi un sinonimo di autosufficienza individuale e locale), il piacere (ossia, la gioia di essere vivi) e la longevità o sostenibilità (che esprime il nostro desiderio di veder perdurare libertà e piacere). Tutte queste aspirazioni implicano il criterio del benessere. Alla fine , dipendono necessariamente dal benessere della natura: l’idea che libertà e piacere possano durare a lungo in un mondo malato è assurda“.

Berry aggiunge che quando parliamo di comunità dobbiamo riferirci ad  un legame complesso non soltanto tra esseri umani ma tra questi e l’ambiente che li circonda. Una prospettiva di conservazione ecologica, se si vuole. Tanto antimoderna da essere addirittura proiettata nell’avvenire… Come il pensiero di questo americano che si permette di mettere in discussione l’ideologia americana, quella che sta corrodendo gli Stati Uniti e l’intero Occidente in un processo di regressione il cui esito davvero può essere la “fine della storia”.

E in una delle sue poesie lo fa intendere molto bene. “Questa è l’età della nostra assenza dal mondo, anche/ se lo abitiamo ancora. Siamo ormai spettri,/ disincarnasti dal terreno originario dai mali inflitti/ alla terra, all’acqua, all’aria, alla luce. I salici/ indigeni, i nostri antichi vicini, sono spariti/ dal fiume, e chi se n’è accorto?/…Il dominio dell’anonimato offusca la terra/ dove voci meccaniche ci guidano nel buio”.

Una condanna impietosa. Un pensiero rivolto all’umanità distratta affinché “l’amore tocchi terra”.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.