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È nelle librerie un volume prezioso, aureo. Le sue pagine restituiscono al lettore il corpus dei racconti di fate, anima profonda e vivificatrice della cultura irlandese. Ci riferiamo a Fairy legends. Racconti di fate e tradizioni irlandesi di Thomas Crofton Croker, libro che arricchisce il catalogo di Neri Pozza, impeccabilmente curato da Francesca Diano (pp. 735, euro 30,00). Nel 1999 la stessa curatrice si adoperò perché vedesse la luce, anche in traduzione italiana, il volume, Fairy Legendsand Traditions of the South of Ireland che Crofton Croker dette alle stampe nel 1825 in forma anonima per i tipi del prestigioso editore Murray. Si trattava della prima raccolta di leggende orali irlandesi pubblicata nelle Isole Britanniche. La nuova edizione italiana che presentiamo, alla quale la curatrice ha lavorato per due decenni, rappresenta un’importante novità editoriale in quanto, alla ricordata edizione del 1825, aggiunge la “Seconda parte” e la “Terza parte”, realizzando, pertanto,l’intenzione di Croker stesso di editare un volume unico delle tradizioni dell’ “isola di smeraldo”. Il libro contiene, inoltre, lo scritto dei fratelli Grimm, con i quali Croker intrattenne una fitta corrispondenza, Saggio sugli Esseri Fatati, finora inedito in italiano, nonché un trattato sul folklore e le tradizioni gallesi, Mabinogion e le leggende di fate gallesi.
La lettura di queste pagine è rasserenante. Pone di fronte alla viva sorgente della kultur celtico-druidica. L’autore, nella trascrizione dei racconti appresi dalla viva voce dei contadini d’Irlanda, ha mostrato la qualità poetica della sua prosa: è riuscito a non tradire il flusso della vita metamorfizzante, delle potestates animanti la natura, così come erano state preservate nella tradizione orale. Le incisioni che compaiono nel libro, opera di Croker, di W. H. Brouke e del pittore Daniel Maclise, trasmettono, con la lievità del loro tratto grafico, l’innocenza, a volte tragica, del Principio che è sotteso al vivente e che anima, quale evento, avrebbe chiosato Carlo Diano, insigne genitore di Francesca, ogni atto, ogni ente della natura. Ma chi era Croker? Nacque da famiglia anglo-irlandese nel 1798 a Cork. Animato da curiositas classica, fin dall’adolescenzavagabondò nelle campagne del Munster alla ricerca delle tradizioni popolari, raccogliendo una straordinaria quantità di materiale. Fu: «uomo dagli interessi […] eclettici: poeta, pittore, incisore, musicista, si dedicò a sperimentare la tecnica allora nuovissima della stampa litografica» (pp. 21-22). Il primo incontro con la cultura e la lingua gaelica (che presto studiò) avvenne quando ebbe modo di assistere a un pattern, festa del santo patrono, e al pellegrinaggio a esso connesso, la notte fra il 23 e il 24 giugno 1813 presso le sponde del lago di Gougane Barra, ubicato nei pressi dellasua città natale. Da allora, i suoi interessi si focalizzarono sui contenuti della tradizione orale irlandese.
Si convinse, assieme ai fratelli Grimm, che: «il folklore europeo […] derivi da un’unica radice comune», rileva la curatrice (p. 17). Tale idea ha assonanza con quanto sostento da Jung a proposito dell’inconscio collettivo, nota Diano. A noi sembra che ciò possa rinviare anche all’idea di Tradizione primordiale. La sua eco era viva nelle leggende orali, non ancora del tutto silenziata dall’irrompere della ratio moderna e dall’avanzare impetuoso e devastante della rivoluzione industriale. Dalle storie raccolte nel volume si evincono: «l’arcaica reverenza e timore nei confronti del divino, dell’invisibile, delle potenze superiori. Ovunque alita il temibile respiro del Sacro» (p. 33). Si badi, la formazione di Croker fu di stampo razionalista, pertanto non condivise le superstizioni ma: «le rispetta(ò) al punto di riportarle inalterate» (p. 28). Le sue intenzioni furono anche politiche (a più riprese, l’autore negò tale valenza ai suoi studi): tentò di dar voce a coloro cui era stata sottratta, agli ultimi, ai poveri contadini irlandesi, che la Grande Carestia e il colonialismo inglese avevano tacitato. Si mantenne, comunque, lontano dagli eccessi del nazionalismo irlandese. Si sentì, di contro, prossimo alle posizioni di Daniel O’Connell: cercò di far incontrare irlandesi e inglesi nel nome della reciproca conoscenza delle loro culture.
Il “Buon Popolo” o “Piccolo Popolo”, le fate, gli elfi, gli gnomi sono protagonisti indiscussi di queste leggende. In una di esse, La leggenda di Knocksheorgowna, si legge: «Il Buon Popolo era indignato per il fatto che la scena dei loro giochi scanzonati e briosi fosse stata invasa dal brutale scalpiccio di tori e vacche» (p. 57). La regina delle fate decise, pertanto, di allontanare l’azione invasiva degli uomini dalla collina sulla cui sommità le sue consorelle si dilettavano. Il coraggio di Laurence la convinse a desistere e la indusse ad esclamare: «finché pascolerai il bestiame su questa collina, non sarai più molestato da me e dai miei» (p. 61). Esempio di conciliazione dell’uomo e dell’invisibile. La cantina stregata mostra come l’arroganza e la potenza puramente mondana non siano ben tollerate dal “Piccolo Popolo”. Vero protagonista del racconto è uno gnomo capace di stregare la cantina di un maniero: «indossava un berretto da notte rosso, davanti aveva un corto grembiule di cuoio […] le scarpe erano ornate da fibbie d’argento e il tacco era alto […] il naso di un bel rosso cremisi» (p. 151). Quando il nobile proprietario scese in cantina senza protervia, a differenza del suo servitore, i fenomeni cessarono.
La leggenda che ci ha maggiormente colpito è, Il cavaliere senza testa. Narra le vicende di Charley, cavaliere senza paura, che in una notte tempestosa, di vento e pioggia battente, incontrò sulla sua strada un cavaliere senza testa. Quest’ultimo, da principio, sembrò ricusare in malo modo ledomande del primo. Si trattava di uno spirito errante, la cui vita e quella del suo destriero (anch’esso decapitato) avevano avuto termine cento anni prima a causa di un caduta in prossimità della collina di Kilkummer. Il coraggio di Charley durante la pericolosa galoppata notturna fece dire allo spirito del cavaliere che, da quel momento, avrebbe sempre protetto, stando invisibilmente al loro fianco, il suo rivale e la giumenta che montava. La leggenda esplicita la continuità di vita e morte. Medesima concezione, alla metà dell’Ottocento, sarà propria di un grande “eretico” del pensiero europeo, G. T. Fechner. La morte per i Celti non era che soglia verso uno stato dell’essere Altro rispetto a quello terreno. Chiarisce Diano: «Privati della loro vita, gli irlandesi hanno trasformato in arte la sola cosa che era stata loro lasciata: la morte» (p. 44). Nel mondo contemporaneo, lo hanno insegnato in modalità diversa Elias Canetti e Martin Heidegger, la morte viene elusa, obliata, rifiutata. Le pagine di Fairy Legends, anche per questo, sono lettura disvelativa e rasserenante. Esse conducono il lettore in boschi incantati, in città meravigliose sommerse dalle acque di laghi blu, in antichi castelli animati dalla presenza del “Buon Popolo”, luoghi nei quali si apprende la magia della vita, la possibilità dell’impossibile. Non è cosa da poco.