Non ce ne voglia il lettore se partiamo da lontano per offrirgli una chiave di interpretazione del coma profondo in cui annaspa la sinistra italiana, soprattutto il Pd, suo principale partito. Correva infatti l’anno 1951 quando, dalle colonne di Rinascita, Palmiro Togliatti liquidò l’addio dello scrittore Elio Vittorini al Pci con un impasto di cinismo e sarcasmo («Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato!») che oggi farebbe fremere di sacra indignazione i cultori del politically correct. Il Migliore, in realtà, era tutt’altro che insensibile al fascino degli intellettuali, ma da capo dei comunisti aveva l’obbligo ideologico di ricordare agli uomini di cultura il primato del Partito, inteso come intellettuale collettivo.
Altri tempi, si dirà. Ed è vero: Togliatti è morto nel ’64, Rinascita ha cessato le pubblicazioni nel 1991mentre il Pci è stato nel tempo rimpiazzato prima dal Pds, poi Ds e ora Pd. Restano solo gli intellettuali. Certo, meno organici di quanto non fossero ai tempi del compagno Togliatti, ma in compenso incidenti come non mai sulle sorti della sinistra ex-post e neo-comunista, di cui rappresentano, a differenza di quanto accadeva ai tempi di Vittorini, veri e propri totem: impongono la linea, dettano l’agenda, stabiliscono le alleanze. Avendo spesso come unica bussola l’ombelico delle proprie convinzioni, non di rado felicemente combinate con quella delle proprie convenienze. Ignorarli non è consigliabile: chi, come due big del calibro di D’Alema e Fassino, provò a farlo, finì per pagare il fio caro e amaro. Entrambi, infatti, finirono bersaglio dell’ormai celebre «con questi dirigenti non vinceremo mai!» urlato da Nanni Moretti al tempo dei girotondi antiberlusconiani.
Ricordate? Bene, quell’invettiva non sprigionava solo un senso di frustrazione a lungo latente in parte della sinistra intellettuale, ma rappresentava un cambio di paradigma: da avanguardia, il partito si faceva retroguardia. Da quel momento in poi avrebbe seguito, come l’intendenza napoleonica. Con Togliatti, con Longo (e con lo stesso Berlinguer) sarebbe stato impensabile. Il regista, invece, lo spiattellò in faccia alla nomenclatura, quasi a volerne sottolineare la marginalità rispetto alle dinamiche che mobilitavano il popolo della sinistra. Moretti, in realtà, non aveva inventato nulla. Raccoglieva semmai i frutti di una profonda metamorfosi, a lungo incubata e senz’altro favorita dal fiancheggiamento molesto nel tempo di un giornale-partito come Repubblica, impegnato fin dalla sua fondazione, nel 1976, a trasformare il Pci in un partito azionista di massa, sradicandolo dalle sue radici popolari. E chissà se non stia proprio in questo ribaltamento di ruoli tra intellettuali e partito la crisi della sinistra, la sua evanescenza politica e il suo inarrestabile sfarinarsi in un ogm tutto egemonia e niente consensi. Con l’aggravante che al posto dei Vittorini di ieri, a condurre oggi le danze del Pd provvedono essenzialmente mezzibusti tv, attori, impresari, cantanti influencer, blogger e rapper. Apposta per la sinistra oggi Sanremo (inteso come festival) conta più delle Frattocchie e l’endorsement di Chiara Ferragni vale più del voto dell’operaio Cipputi. Inevitabile. Dall’alto della sua torre catodica, la sinistra ha smesso di intercettare i bisogni delle persone e di comprenderne le paure. Decifra gli uni e le altre utilizzando, senza filtri politici, i codici astratti dei suoi nuovi signori.
E siamo all’oggi, con la promozione del terzo sesso al posto dell’emancipazione del Quarto stato e con le patacche simil-ideologiche spacciate per priorità, se non per autentiche emergenze: dal fascismo sempre in agguato alla guerra al patriarcato, passando per i diritti Lgbtqia+, l’uso dello schwa, l’utero in affitto e lotta al cambiamento climatico. In tale contesto, l’elezione di Elly Schlein alla guida del Pd è quasi una scelta obbligata, dal momento che la nuova leader incarna tutti i filoni cultuali del nuovo corso: globalismo (ha tre passaporti), gender-fluid (è omosessuale) e gretismo (è una convinta assertrice del climate change). Una singolarissima coincidenza che ne fa la più autentica testimonial della laicissima trinità che ispira il pensiero e l’azione del Pd. Un vero paradosso se la caliamo nel contesto insanguinato dalla guerra e reso insicuro dalla lotta per l’affermazione di nuove egemonie su scala planetaria. Ben altre, insomma, dovrebbero essere le priorità del maggior partito della sinistra. Ma è esattamente in questa sconnessione tra realismo politico e utopismo simil-ideologico che si percepisce il respiro affannoso dei suoi nuovi maître à penser. Gramsci ne resterebbe inorridito.
Intellettuale, per lui, era chiunque fornisse coscienza e consapevolezza della propria classe. In tal senso, erano intellettuali organici soprattutto contadini e operai. E, salendo per li rami, sindacalisti e dirigenti del partito. In tal senso, il Togliatti che sferza Vittorini è solo un esecutore di questa visione. Come a dire che, tra i due, il vero intellettuale è il capo dei comunisti, in quanto interprete della concretezza del conflitto sociale e perciò dotato di una “superiorità” etico-politica che gli consente di contrapporre allo scrittore siciliano la «gente comune». Esattamente il concetto che la sinistra ha espulso dal proprio orizzonte per fare spazio ai guru del momento. Più che normale, perciò, se ad abbandonarla oggi non sono più i Vittorini ma gli elettori.