
Mentre l’Italia non smette di trastullarsi con il suo “Fattore M.”, la Spagna è alle prese con il suo “Fattore F.”. Infatti, implacabile, il calendario si sta avvicinando al prossimo 20 novembre quando scatterà il cinquantesimo anniversario della morte di Francisco Franco, il caudillo che ha governato gli spagnoli con pugno duro dalla fine della guerra civile (1939) fino, appunto, alla sua dipartita, a 82 anni, nel 1975. Il “problema” che Franco si è lasciato alle spalle è che, a differenza di molti “colleghi”, è morto tranquillamente nel suo letto e nel suo paese. Ed è morto dopo aver preparato una transizione che forse non è andata esattamente come sperava ma che comunque prevedeva il passaggio della Spagna da un regime dittatoriale ad una monarchia costituzionale e quindi ad una forma di democrazia avanzata, di tipo occidentale.
Non si tratta di roba da poco come ha implicitamente ammesso il premier Sanchéz che, annunciando il fitto programma di iniziative per celebrare i cinquant’anni della democrazia spagnola, ha evitato di pronunciare anche un sola volta il nome di Francisco Franco benché tutta l’operazione sia basata su un presupposto temporale ben preciso come si legge sul sito https://espanaenlibertad.gob.es/ : «Nel 1975, la Spagna ha intrapreso un lungo e difficile cammino per riconquistare la libertà e la democrazia…». Ma cosa sia accaduto proprio nel 1975 girando per il sito non lo si scopre facilmente almeno che non si vada nelle FAQ (le domande/risposta predisposte per dare le principali indicazioni) e si decida di affrontare la terza questione proposta: “Perché nel 2025 e non in un altro anno?”. La risposta è questa: «Perché il 2025 segna il 50° anniversario dell’inizio della transizione spagnola. È chiaro che la morte di Francisco Franco, avvenuta il 20 novembre 1975, non ha portato a una trasformazione immediata del regime politico spagnolo. Ma la maggior parte degli storici concorda sul fatto che segnò la fine simbolica della dittatura e l’inizio di un lungo processo sociale e istituzionale che portò al ritorno della democrazia. Per questo motivo il 1975 è solitamente considerato l’inizio della Transizione e viene ora preso come riferimento per le commemorazioni». Una conferma che, in fondo, tutto gira intorno a quel nome e alla sua indolore uscita di scena.
Non potendo festeggiare una vittoria ottenuta con le armi o in altro modo, Pedro Sanchéz, socialista, alla guida di un governo di sinistra dalla maggioranza parlamentare molto risicata, fa quello che prima di lui hanno fatto tutti i leader della sinistra spagnola: andare avanti come se nulla fosse, non fare nessun tentativo verso la pacificazione nazionale (sempre doverosa, e molto utile quando si è minoranza) e anzi accanirsi sugli avversari, vivi e soprattutto morti. Come dimenticare che l’ondata iconoclasta che ha travolto gli Stati Uniti ancora pochi anni fa sull’onda del delirio dei “Black Lives Matter” ha avuto un prologo proprio nella Spagna di un predecessore di Sanchéz, quel José Luis Rodríguez Zapatero che, tra il 2004 e il 2011 si è messo a rimuovere con puntiglio statue e nomi di strade che potessero rimandare al periodo franchista. In perfetta continuità con Zapatero, Sanchez nel 2019 ha anche provveduto a far trasferire la salma di Francisco Franco dalla monumentale Valle de los Caídos, il sacrario voluto dal Regime negli anni Cinquanta per seppellire molti ex combattenti di entrambe le parti in lotta durante la sanguinosa guerra civile.
La scelta di non voler rimarginare le ferite del passato con gesti di riconciliazione è comune a molte culture “progressiste”, specie in Europa, ma la cosa che colpisce particolarmente in Spagna è che questo atteggiamento oltranzista (e, detto francamente, un po’ miope specie se si è a distanza di vari decenni dai fatti) è portato avanti da una parte politica che non solo ha perso una guerra civile – che aveva contribuito a far scoppiare – ma non ha avuto un ruolo rilevante neanche nel passaggio alla democrazia. Infatti le prime elezioni del dopo Franco – tenutesi a poco più di un anno e mezzo dalla morte del dittatore – furono vinte dal leader dell’Unione del Centro Democratico, Adolfo Suárez che aveva alle spalle una lunga militanza nelle fila del franchismo. Furono proprio Suárez e il re Juan Carlos di Borbone (delfino ufficiale di Franco fin dagli anni Sessanta) i veri architetti della transizione post franchista.
Molte voci si sono levate a ricordare che le cose non stiano come piacerebbe a Pedro Sanchez & C. Ovvie le prese di distanza su come sono state impostate le celebrazioni da parte dei moderati del Partito Popolare (il partito di maggioranza relativa nel Paese benché all’opposizione) e della destra di VOX (un altro 10/12 % di elettorato…). Ma sono da registrare critiche meno scontate come quella arrivata a brutto muso, con un lapidario post su X, dall’ex segretario generale del Partito socialista basco Nicolás Redondo Terreros: “Nel 2025 non c’è nulla da festeggiare. Franco è morto nel suo letto perché i sostenitori antifranchisti in vita erano meno di quelli che sono apparsi dopo la sua morte, e molto meno di quelli che oggi gridano freneticamente, quando la libertà è già stata conquistata più di 40 anni fa…”.
Una realtà dura da accettare forse ma che spiega in parte come la Spagna sia riuscita, nel giro di pochissimi anni, a passare in modo praticamente indolore dal Regime franchista alla democrazia parlamentare. Come ha ricordato sulla sua newsletter “Cose di Spagna” la giornalista Laura Cardia: «Un paio di decenni fa, quando era presidente del Governo spagnolo, José María Aznar fu ospite di “Porta a porta”. E a Bruno Vespa, che gli chiedeva come la Spagna avesse fatto a uscire così libera e bella da quarant’anni di dittatura, con una concordia nazionale ammirevole, lui diede una risposta che mi colpì molto: “Semplice, non ne parliamo”».
Forse guardare ostentatamente avanti senza mai voltarsi indietro non è la soluzione migliore in assoluto ma è sicuramente meglio di quella che il governo Sanchez ha scelto, in piena coerenza con una tradizione politica che sembra non voler far tesoro delle lezioni del passato col suo insistere a vedere e valorizzare solo quello che le piace. Pratica pericolosa non solo perché, come dimostrano tanto il caso italiano che quello spagnolo, gli snodi della Storia non vengono mai elaborati nella loro complessità ma anche perché espone a situazioni grottesche. Come nel curioso grafico che il governo di Madrid ha voluto inserire nell’home page del sito dedicato alle celebrazioni per sottolineare i passi in avanti della Spagna in questi cinquant’anni: che l’aumento della vita media sia dovuto proprio all’ avvento della democrazia può esser dubbio così come l’incremento della superficie dei parchi e delle aree naturalistiche. Indici che sono nettamente cresciuti ovunque, anche dove la democrazia parlamentare era già attiva da ben prima del 1975. Idem per l’aumento dell’occupazione femminile, dell’igiene personale o per l’incremento della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili…
Come si vede, il “non voler fare i conti con la propria storia” – ormai un insopportabile tormentone – è pratica diffusa e trasversale. C’è chi lo fa meglio e chi peggio. La “ricetta Sanchéz” (o “alla spagnola”) non sembra delle migliori.