Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, la villeggiatura incominciava nel cuore della notte del primo agosto. Intorno alle due eravamo pronti per partire. Tutta la famiglia, comprese nonne e zie che restavano a casa, attendevano l’evento. Mia sorella ed io assistevamo ansiosi e felici i nostri genitori impegnati nel caricare la comoda 1500 L Fiat. Si viaggiava scrutando le buie strade di montagna in attesa di sorprese che non si manifestavano, mentre l’orizzonte marino era nei nostri occhi per nulla assonnati. A Silvi Marina, in Abruzzo, dovevamo arrivare in tempo per il primo bagno. Ecco la ragione di quella scomoda partenza ad un’ora “pazzesca”. In vista di Roccaraso si cercava una sosta. Alle quattro del mattino c’era già un bar aperto in grado di offrirci qualche genere di conforto. L’albergo che ci ospitava da anni per almeno un mese ci appariva come una sorta di Eldorado. All’ingresso, esauriti i convenevoli con i proprietari ed il personale che ci conosceva bene, guadagnavamo le stanze soltanto per indossare i costumi e correre sulla spiaggia dove avremmo dovuto guardare semplicemente il mare secondo le disposizioni puntualmente disattese di mamma e papà.
Erano anni felici. Forse in ragione della mia età di adolescente che sotto l’ombrellone si portava già una bracciata di libri ed un giornale di partito (addirittura!). Ma la vacanza era anche questo. Insieme con le nuotate, i timidi sguardi alle ragazze in fiore, le concitate partite di pallone sul bagnasciuga davanti all’unica fila di ombrelloni che rendeva la spiaggia una specie di radioso deserto. Discussioni politiche e turbamenti sentimentali, chiamiamoli così. Le mie villeggiature erano come tempo sospeso nel quale tutto sembrava consentito, mentre la mente vagava tra lo sciabordio delle onde e le promesse di una giovinezza che stava maturando a ritmi frenetici. Al mattino, in riva al mare, mi accompagnavano le musiche ascoltate in discoteche approssimative: mi capitò di assistere perfino all’esibizione di un giovanissimo Lucio Dalla che nessuno conosceva e men che meno i miei genitori ed i loro amici apprezzavano. Così come severamente mi rimproveravano i gusti musicali eccentrici che, a dire la verità, neppure i miei coetanei condividevano. Era il tempo dell’esplosione dei Led Zeppelin e dei Cream; Jimi Hendrix giganteggiava come l’eroe di Woodstock; Frank Zappa e gli Who facevano sognare ed i Pink Floyd aprivano la mente ad altre avventure. Altro che Beatles e Rolling Stones. Non disdegnavo comunque neppure Dik Dik, Camaleonti ed Equipe ’84: le colonne sonore dell’estate le dettava il mitico Cantagiro che non mi persi in una tappa da quelle parti fuggendo nottetempo dall’albergo.
La villeggiatura era gaia, insomma. E sotto l’ombrellone perfino le interviste ai politici, commentate da mio padre, avevano un che di surreale di fronte alle aspettative di quei giorni di passione.
Oggi perfino le parole ad uscire. Esprimono la sofferenza di chi scrive con il solo conforto di una musica che fa da contrappunto al sibilo dell’aria condizionata. Ed evocano ricordi che leniscano il dolore di chi scrive provocato da questa stagione violenta. Da tempo, infatti, l’estate non mantiene le promesse di una volta. Dovrebbe essere il tempo della liberazione e invece ci fa stare tappati in casa davanti ad un refrigerante qualunque; dovrebbe indurci a fuggire la pazza folla, ma al solo pensiero di incontrarne di più imponenti, sudaticce, chiassose e volgari preferiamo rifugiarci nel solito guscio; dovrebbe favorire incontri e scambi, serate serene e pigri pomeriggi, invece ci assediano la calura infame e la solitudine anche quando si sta in spiaggia attorniati da migliaia di bagnanti soli come noi, annoiati come noi, nervosi forse più di noi. In colonna sulle autostrade o davanti ai chioschi marini, ma anche nelle alte malghe o nei più abbordabili agriturismi, la verità è che d’estate diventiamo intolleranti verso noi stessi e poi nei confronti degli altri.
Una volta non era così, come sanno coloro che hanno passato la cinquantina. L’estate manteneva le sue promesse. E ci si divertiva con poco, si era tutti più svagati, le vacanze non erano le bolsceviche “ferie” da fare a tutti i costi e a caro prezzo.
Bastava non essere schiavi di orari ed impegni, per sentirsi liberi e dunque immersi in una stagione che regalava molto, dal caldo sopportabile ai frutti saporiti e profumati, e non esigeva nulla da chicchessia, men che meno l’esibizione di riti di massa ai quali oggi nessuno può sottrarsi e chi lo fa o è uno snob da evitare o un poveraccio da non frequentare. Per di più l’estate un tempo avvicinava, oggi divide. Le famiglie si riunivano, adesso si frantumano. Ognuno per conto suo e arrivederci a chissà quando.
La villeggiatura la si amava anche perché prevedeva il ritorno. Ed era comunque gioioso, almeno quanto la partenza. Fuggire dopo i primi temporali d’agosto era come guadagnare il tempo che s’era fermato. E comunque ci aspettava un’appendice. Papà e mamma ci facevano concludere l’estate nelle città d’arte. L’incantamento dopo la spensieratezza. E l’Italia era bella.