• 2 Febbraio 2025
Cultura

Nel 1973 Juan Domingo Peròn tornò al potere e Jorge Luis Borges, nell’autunno di quell’anno, lasciò la carica di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires per manifestare il suo dissenso. Per uno scrittore che aveva fatto della fantasia e della finzione, del destino e del fatalismo le cifre per eccellenza della propria opera fu un gesto inatteso dettato, evidentemente, dalla volontà che sentiva a pelle, se non con l’intelletto, la libertà umana e il suo sdegno. In quegli anni uscì la raccolta di poesie dal titolo enigmatico: “La rosa profonda” (Adelphi). Gli ultimi versi del sonetto elisabettiano intitolato “Il cieco” cantano e tremano: “E nel giardino, amici,/ è una lugubre rosa di tenebra che aspiro./ Ora restano solo sagome paglierine/ e non posso vedere che per vedere incubi”. Lo scrittore argentino, che perse la vista progressivamente, non ebbe mai un vero lamento verso la cecità e, anzi, la perdita della vista sembra quasi l’occasione della conquista di un vero sguardo che si inoltra nelle ombre. Tuttavia, in queste poesie degli anni Settanta il buio si riprende i suoi mostruosi diritti – “e non posso vedere che per vedere incubi” – che, però, nell’opera di Borges riguardano sia la cecità sia la vista, sia il buio sia la luce. Che cos’è, infatti, la rosa profonda?

Nel saggio critico che chiude il volumetto adelphiano, Tommaso Scarano dà questa risposta: la rosa è il simbolo della pluralità inconoscibile della realtà. Nella larga produzione letteraria di Borges, che fu saggista, narratore e lirico, si agitano due piani: uno teorico e uno esistenziale. Quello teorico, che può essere rappresentato da “Storia dell’eternità” (sempre Adelphi), racchiude in sé la verità che con le sue fauci leonine divora, come accade dalla notte dei tempi del pensiero occidentale, i fenomeni, il tempo, le esistenze, le illusioni, le opinioni. Con quello esistenziale, che può essere “visto” proprio negli endecasillabi de “La rosa profonda”, le esperienze della umana, troppo umana condizione si riprendono, in termini di gioie e dolori, le loro rivincite e l’uomo, perdendo la verità, si ritrova nella poesia. Ecco perché in queste poesie si può vedere una sorta di autoritratto dello scrittore di Buenos Aires. Non a caso la prima lirica è “Io” e dice: “Io sono queste cose. Assurdamente/ sono anche la memoria di una spada/ e quella di un tramonto solitario/ che si dissolve in oro, in ombra, in niente”. Tutto e niente, uno e l’altro. Lo scrittore, il narratore, il cantastorie, il saggista avrebbe voluto essere un uomo d’azione – la spada – ma non potendolo essere si rifugiò nelle lettere e nella lettura che la cecità, che è un destino, gli toglie. La profonda rosa dell’esistenza è inconoscibile e, forse, appare soltanto nelle liriche intime, come la verità di manifesta a tratti negli errori del mondo. L’incidenza di Schopenhauer nel pensiero di Borges – e, si direbbe, nella cultura contemporanea dall’Ottocento a oggi – è più ampia di quanto non si sia disposti ad ammettere. E’ lì che nasce la frattura tra essere e pensare ed è in quella lesione, che sa di tragico, che spunta la rosa profonda che Jorge Luis Borges vede dal fondo della cecità umanavedendo sé stesso.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.