• 4 Luglio 2024
Editoriale

Il grande reset o una grande cospirazione, forse una teoria finalizzata al benessere globale o all’illusione di uno stato di fatto che va ad annullare ogni aspettativa che spinge strategicamente a concentrarci su una sola data: 2030.

Una data fatidica e risolutiva di ogni probabile problema mondiale, il cui raggiungimento si emula e sia significativo di uno stato di avanzamento globale verso un benessere assoluto, sia ambientale, ecologico, economico, finanziario, parole che la politica dei grandi numeri utilizza in una dimensione esterna alla realtà dei social e al superamento reale dei problemi contingenti di una verità che si fa sempre più stringente a danno di diseconomie irrecuperabili.

Molti opinionisti, ma anche molti leaders ci spiegano come oltre il 2030, saremo assolutamente felici, liberi, da ogni materiale vincolo e ci spingono a liberarci della proprietà privata, entrando in una dimensione ove tutto è preso a prestito, il denaro, la casa in affitto, la macchina in leasing o altro, ovvero tutti noleggeremo ogni cosa in una sorta di realtà condivisa, dove non possederemo nulla per una felicità eterna “quotidianizzata”.

Certamente chi afferma ciò crede in una realtà progressista dove il capitalismo condiviso, ci terrà in ostaggio, non saremo più forza lavoro o forza creatrice, ma esuli in cerca di un reddito Universale sostenitore dei nostri bisogni primari, dove saremo sostituiti dai robot bionici e dalla IA, dove i soldi subiranno motivazioni e transazioni controllate, dalle banche centrali, al fine di generare un’economia non globale, non basata sul libero scambio di servizi e benefici, ma globalizzata alla cui base di governi o sovra -governi globalizzati vi è la tecnologia che controllerà e diffonderà ogni azione e non riusciremo a sfuggire, ostaggio delle apps di riferimento e dei refusi informatici.

Il ruolo politico e privato si confonderà in una sorta di confusa decisione non più nominale e mai presa in completa autonomia, le politiche green ad esempio sono il primo baluardo di forme indirette di consulenze comprate al fine di adottare scelte esemplari, per addurre il cambiamento climatico su un orientamento di business senza ritorno.

Le strategie commissionate dagli Stati membri incapaci di eleggere scienziati compiacenti verso una decisione di management strategico, arrivano a determinare a prezzi notevoli consulenze prefissate e programmate, che indicano degli standard per prevenire il surriscaldamento globale, attraverso un mercato immobiliare indotto al green, o realizzare edifici ex novo resistenti agli eventi climatici, supposti altresì da consulenze sul clima, una sorta di conflitto di interessi, che si intreccia nei progetti di valutazione finale, e coordina le politiche integrate climatiche europee spalmate ovunque e per chiunque in Europa.

La misurazione aziendale dell’impatto climatico è altresì oggetto di consulenze e di rendicontazioni aziendali avulse da gestioni reali, ma matematicamente certificate, si è creato così la lobby delle consulenze super pagate, giustificate, insindacabili, che altresì essendo di partecipazione europea crescono in conoscenze, al punto tale che sono insuperabili e imprescindibili, per consulenza finale.

La più globalizzata sfida del nostro secolo, ed omaggiata da un’idea astratta ma ormai diffusa nel green ideologico europeo, è lo sviluppo sostenibile, un esempio di incongruenza alogica: come può lo sviluppo tecnologico per lo più oggi avanzato essere sostenibile? Il paradosso verbale spinge ad un assioma, costruito, un imperativo che dobbiamo affrontare dall’inizio del terzo millennio in trent’anni, costi ciò che costi, la nostra autonomia politica o sovranità alimentare, la nostra identità e diversità europea, la nostra verità scientifica pagata a costi di consulenze inverosimili, noi europei dobbiamo da soli, ridurre le Emissioni di CO2, mondiali, con una sostenibilità ambientale, che tradotta significa abolizione di materiale naturale  faunistico e agricolo rurale, ovvero, un conflitto di interessi tra il progresso, l’ambiente circostante e le categorie che si prendono cura di esso, gli agricoltori.

Sarà un ossimoro la sostenibilità, conflitto ideologico, distopia di una natura naturale, è ormai un obbligo   inclusivo, dove dobbiamo includere e adottare tutti i modelli produttivi, anche industriali, i consumi, in particolare le plastiche, in una sorta di riciclo circolare di cui nessuno calcola i costi sociali e ne dà menzione pubblica oltre che ufficiale.

Il punto di equilibrio in questo conflitto di interessi non è oggetto di studio, oppure sono i governi che subiscono direttive europee e devono praticamente cercane il fine, il modo, i tempi di raggiungimento entro il 2030, un diktat temporale, non assolutamente reale.

Mentre i grandi inquinatori continuano impassibili, ad essere virtuosi, in politiche di business oltremodo assurde, come Amazon, o tante grandi realtà che degli studi commissionati dalla Commissione europea , non ne fanno riferimento dimentichi, del riciclo, delle emissioni, delle materie prime, della loro produzione agricola, estrazione mineraria, e delle tante realtà produttive ai margini della legalità che del futuro green non sanno l’esistenza perché paesi emergenti o comunque avulsi dal benessere occidentale.

Gli incarichi europei viaggiano su ordini di svariati milioni di euro l’anno di consulenze, dai 50 ai 200 milioni di euro, che regolarmente non sono applicate o comunque riflettono un intreccio di interessi avulso dalla realtà di applicazione, parliamo di agenzie per il clima e per l’ambiente, dove le progettazioni non trovano una sostanziale applicazione, se non paradossalmente educativa nell’ambito scolastico primario, o formativo, presso parchi dotati di risorse scarsamente formate e di scarsa propensione a capirne l’utilità.

La bandiera più altamente capitalizzata resta ed è il business del climate chage, che sfonderà il tetto dei 15 miliardi nel 2028, con uno studio diffuso dall’agenzia più quotata in Europa, Kpmg, sulle emissioni zero, che andrà ad implementare i profitti almeno di 43 aziende su 100 che a livello europeo inquinano di più, con un benestare sui conflitti di interesse che rasenta la collusione.

Tutti vanno i Europa, tutti trovano business da fare, resta la delusione di una politica sganciata dalla realtà, le università cercano di fare ricerca a vantaggio di briciole, che arrivano da consulenze, regionali o europee, che restano in un ambito di internazionalizzazione dove il territorio non ha alcuna ricaduta o vantaggio economico e culturale e occupazionale.  

Le competenze poste in campo sono acquisite in atenei ristretti, o comunque omologati, con un meccanismo di consulenza dove la gestione della ricerca è altresì basata sui rischi di conflitti di interesse, con protocolli e disciplinari standard e obsoleti, dove cogliere le fallimentari responsabilità di gestione da parte dei controllori e inutile o impercettibile.

Dunque, la politica economica europea viaggia sempre sulla corruzione delle consulenze supermiliardarie, su consulenze esterne, gestite con orientamenti finanziari precisi, e il tutto diventa politica di integrazione, fondi di coesione o PNRR ingestibili e inapplicabili perché ricettacolo di politiche studiate a tavolino, non inclusive e non resilienti di una ripresa economica specifica e fatta ad hoc per ogni territorio o macroarea rurale.

Ma maggiormente il conflitto di interesse, rilevato a più riprese dalla Corte dei conti europea, evidenzia che se le imprese di consulenza lavorano per chi scrive le regole e per chi deve applicarle e rispettarle, si determina un surplus di profitti derivanti da un abuso di ruoli, ovvero se la Kpmg o la Pwc , poi operano servendo assistenza alle stesse aziende per cui ha rivelato l’impatto ambientale e poi ne deve determinare il metodo di sostenibilità, sa di imbroglio sostanziale e di falso ideologico, per cui l’Europa sostanzia finanziamenti a discapito dei suoi elettori e a vantaggio di una oligarchica industriale e aziendale, che esce dalla porta ma fa sì che i suoi profitti rientrano dalla finestra.

Mentre le future generazioni di europei per il 2030, saranno in attesa di una sostanziale felicità di cambiamento, climatico, economico e quant’altro che tecnologicamente e con l’aiuto delle consulenze e la ricerca di terza categoria avvantaggerà un sistema ostativo della libertà individuale e collettiva nonché comunitaria.

Le multinazionali di fast fashion sono le maggiori inquinanti globali, con un aggravante di impatto ambientale forse irrecuperabile, ma grazie alla certificazione di consulenza tutto ciò è occultato all’interno dei palazzi europei, per cui il made in Italy, altamente messo in discussione, patisce anche questo ulteriore scotto di conflitti di interessi da pagare a caro prezzo per frodare legalmente, mentre è evidente che questa cultura non ci appartiene e non ci fa gioco.

Siamo al fallimento europeo, e ci sono esperti in materia che sanno come pilotarlo, ciò è evidente, quando si parla di competitività europea dobbiamo sapere che le consulenze, costano e sono assolutamente fuori da una riforma conservatrice controrivoluzionaria che tende al ripristino dell’economia reale sociale e di settore.

Autore

Economista, Bio-economista, web master di eu-bioeconomia, ricercatrice Unicas, autrice e ideatrice di numerosi lavori scientifici in ambito internazionale. Esperta di marketing. Saggista, studiosa di geopolitica e di sociopolitica. È autrice dei saggi “Il paradosso della Monarchia” e di “Europa Nazione”. Ha in preparazione altri due saggi sull’identità e sulla politica europee.