È appena stato appena pubblicato il saggio di Maria Teresa Manuela Ruggieri, nostra collaboratrice, dal suggestivo titolo Europa Nazione pubblicato da Amazon, alla quale si può ordinare (pp.251, €19,76). Qui di seguito pubblichiamo alcuni stralci della prefazione di Gennaro Malgieri.
(…) Poco prima di morire ad Ashford, in Inghilterra, combattendo al servizio della resistenza francese, il 24 agosto 1943, Simone Weil, una delle anime più nobili apparse nel crepuscolo dell’Europa, scrisse ai genitori una lettera spiritualmente coinvolgente e politicamente appassionata. In essa leggiamo oggi parole profetiche che dovrebbero proiettarci in una dimensione più umana mentre i bellicisti dell’Ovest e dell’Est si affrontano, con armi diverse per dissolvere il Continente dalla cui cultura furono generati. “Se saranno – scriveva la Weil – solo i soldi e le fabbriche americane a salvarci, cadremo in un modo o nell’altro in una nuova schiavitù, uguale a quella che sopportiamo attualmente. Non bisogna dimenticare che l’Europa non è stata assoggettata da orde provenienti da un’altra parte del mondo o dal pianeta Marte, orde che basta scacciare. L’Europa soffre di una malattia interna. Ha bisogno di guarigione”.
Non si schiera sostanzialmente con nessuno in questi tragici frangenti, per quanto dia l’illusione di farlo, l’Europa dimentica di se stessa. E immagina di potersi salvare levando alti lai contro l’invasore russo che tenta di annettersi, spargendo sangue, la terra dalla quale i suoi padri presero consapevolezza di appartenere ad una identità sulla quale costruire un impero.
Può sembrare paradossale che l’Europa spingendo per l’innesto dell’Ucraina nei suoi confini geopolitici segnati dai diktat americani e difesi dalla inutile NATO, strategicamente pleonastica a fronte della caduta del Patto di Varsavia, voglia “salvarla” dall’autocrate del Cremlino. In realtà persegue un solo comprensibile scopo: appropriarsi di una nazione sovrana per chiudere in uno spazio più ristretto la Russia le cui mire egemoniche, del resto, puntano ad asservire ai voleri dello zar venuto dai freddi e crudeli recessi nei quali il KGB esercitava la propria gloriosa infamia.
Forte della propria “ragione”, incrudelisce Putin sulla inerme popolazione ucraina, definita “nazista”, ed il cosiddetto “mondo libero” si propone di smantellare il suo progetto di conquista agitando lo spettro di una guerra atomica naturalmente guidata dall’America di Joe Biden, un presidente trovatosi alla Casa Bianca quasi per caso e guida necessaria dell’Ovest proclamatosi protettore dell’Ucraina fino a volerla nei suoi confini, a de-russificarla, a farne un’altra cosa perfino rispetto alla sua stessa cultura derivante dal principato antico e religioso di Kiev.
La presidente della Commissione europea, senza che nessuno glielo abbia chiesto, ha dichiarato che l’Ucraina deve far parte dell’Unione europea e della NATO. Ma la chiacchierona di Bruxelles si è prima domandata quali potrebbero essere le conseguenze per l’Europa stessa se il suo auspicio si realizzasse?
L’Europa sarebbe meno libera, minacciata da Est e condizionata da Ovest. Petrolio, gas, grano ne vedrebbe poco o niente e comunque a caro prezzo. Dall’altra riva dell’Atlantico dovrebbe dipendere per tutelarsi dalla brutale forza che la Russia ed i suoi alleati scatenerebbero per ridurla a poco più di una larva politica e civile, immiserita e feudataria di Washington.
Sì, certo: l’Ucraina non merita il destino che le è piombato addosso, ma la stessa Russia meritava qualcosa di meglio di un ex-tenente colonnello del KGB al vertice dello Stato. E tuttavia, per quanto l’Ucraina sia in pericolo, il suo dissolvimento non ci sembra realistico posto che dopotutto nessuno, a parte quattro “satelliti” pretoriani della Federazione Russa , ha una voglia matta di schierarsi con Putin il quale sa, per quanto armeggi con gli armamenti atomici, che subirebbe la stessa fine che immagina di infliggere agli altri.
Onestamente ci preoccupa l’Europa, che sia russa o americana. Dalla “confrontazione” tra le due superpotenze è molto probabile che ne uscirebbe a pezzi per le ragioni accennate e perché, come osservava in tempi ancor più tragici, la citata Simone Weil, non ha una sua fede, non gode di uno stato di grazia libero, ma prigioniera di un cattivo sogno coltivato per oltre più di sette decenni, non è stata in grado di produrre un progetto di autentica autonomia.
La signora Ursula Von der Leyen invece di preparare un “corridoio” che non potrà mai essere umanitario, perché inevitabilmente scatenerà una guerra europea contro la Russia ( con o senza l’America), da far percorrere fin nel cuore Continente all’Ucraina, oltre ad industriarsi con i suoi commissari, cioè gli Stati dell’Unione, per attizzare ciò che non è possibile ottenere, organizzi un piano realistico, possibilmente non influenzato da Washington, sostanzialmente fondato sulla rinuncia di Kiev di entrare a far parte della NATO e dell’Ue, sullo smantellamento dell’ arsenale dentro ed in prossimità dell’Ucraina, sul riconoscimento da parte di Mosca delle regioni russofile del Donbass e quindi la rinuncia su di esse alla sovranità ucraina.
Se l’America si tenesse a distanza non sarebbe male. Ma l’Europa avrebbe il coraggio di assumersi l’onere quanto meno di tentare l’attuazione di un piano del genere?
Tanto i conservatori quanto i progressisti, osserva la Ruggieri, devono “essere solidali, fondamentalmente ai principi di sentimento di Europa sempre più Nazione e meno espressione , o meramente mercato comune”. Ma questa prospettiva è pura illusione per tutto l’arco delle forze politiche le quali, ognuna nel suo ambito, assume un atteggiamento egoistico a difesa dei propri interessi partitici e di quelli , al di là delle conclamate espressioni di fiducia nell’interesse comune.
Tuttavia non bisogna gettare il bambino con l’acqua sporca. L’Europa non solo va salvaguardata da interessi esterni, ma va resa coesa al proprio interno. Molto opportunamente, la Ruggieri scrive che come europei “dobbiamo puntare socialmente ad una Nazione Europa, che abbia una autonomia in ogni , e di fatto non dobbiamo ambire né a divenire una grande Svizzera, né una grande , ma un continente unico, una Nazione unica, con diversità che liberamente migliorano la coesione e la ci divisione politica”.
Come incoraggiamento si potrebbe cominciare a fare un pensierino sulla fragilità del sistema putiniano al quale le sanzioni economiche (soprattutto bancarie) dovrebbero fare piuttosto male danneggiando gli oligarchi che fino ad oggi sono stati la spina dorsale del suo potere.
L’Europa, insomma, se avesse una sua politica di sicurezza e di difesa, se fosse meno spaccata di com’è tra Stati che si guardano con diffidenza, se fosse meno prona ai voleri della Casa Bianca, probabilmente ce la farebbe a portare a compimento una missione storica che ne rilancerebbe il ruolo nel mondo, a cominciare dall’Africa inopinatamente lasciata nelle mani della stessa Russia e soprattutto della Cina. Ma dovrebbe anche avere il coraggio di slegarsi dagli interessi americani e lasciare da solo un Biden che ordina, come inopinatamente ha fatto, l’evacuazione dell’Afghanistan pregiudicando la sicurezza mondiale.
Un’altra idea di Europa può venir fuori dalla catastrofe russo-ucraina. Purché il Continente trovi la fede in se stesso e soprattutto il necessario spirito di coesione per dirsi “nazione”.
Ma il problema è complesso, come sottolinea l’autrice di Europa nazione. Ed allora qualche riflessione sull’agonizzante Europa è doverosa se davvero la si vuole rilanciare come protagonista mondiale dopo aver messo a posto le tessere del suo complesso mosaico.
«Gli sciagurati europei hanno preferito giocare ad armagnacchi e borgognoni, anziché farsi carico su tutto il globo della grande funzione che nella società della loro epoca i Romani avevano saputo assumere e sostenere per secoli. In confronto ai nostri, il loro numero e i loro mezzi non erano nulla; ma nelle viscere dei loro polli essi trovavano più idee giuste e coerenti di quante non ne contengano le nostre scienze politiche». Mi è tornata in mente questa osservazione, acuta e incontestabile, di Paul Valéry, seguendo le vicende europee legate prima, nel 2008, alla bocciatura del Trattato di Lisbona da parte dell’Irlanda e, dunque, del sostanziale fallimento del processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea. E poi con lo sfascio europeo dovuto agli egoismi nazionali in merito ai flussi migratori. L’Europa, checché se ne dica, non c’è. O per lo mano boccheggia ad essere magnanimi. Intanto quasi tutti dicono che bisogna andare avanti come se nulla fosse accaduto.
C’è della follia in tutto ciò. Infatti non ci si rende conto che l’Europa è soltanto un simulacro di unità continentale. Per di più nazioni come l’Italia si stanno letteralmente disfacendo, mentre dovrebbero essere il traino della costituzione europea. Lo spossessamento delle ragioni della nazione di fatto in egual misura colpisce l’Italia e l’Europa, l’una e l’altra sono destinate a diventare entità meramente economiche, funzionali a un disegno utilitaristico coerente con logiche globaliste dominanti. In questo quadro, la «regionalizzazione» dell’Europa, tendenza più spiccata in Italia e, forse, in Gran Bretagna, dove, unità subnazionali omogenee, per dirla con Ralf Dahrendorf, «si uniscono con una formazione sopranazionale retorica e debole», è foriera di conflitti interni agli Stati e di indecisionismo congenito negli stessi per ciò che concerne i rapporti esterni. Insomma, dalla cessione di sovranità e dallo smembramento dello Stato in nome di un federalismo assolutamente inventato come esigenza storico-politica, non è scaturita quell’Europa Nazione che sola avrebbe potuto dare un senso all’unione dei popoli del Vecchio Continente, liberando gli Stati in una dimensione più grande e rendendo le diverse culture componenti organiche di una identità sulla quale fondare un aggregato geopolitico dalle dimensioni imponenti avente le caratteristiche e la forza di un impero.
Era ed è un sogno. Dopo Carlo V non vi è stata epoca nella quale non lo si sia coltivato questo sogno che si è infranto tra Maastricht e Bruxelles. L’idea della nazione europea non riuscirono a sbaragliarla le orde dell’Est e dell’Ovest che nel 1945 piantarono le loro bandiere sul corpo disfatto del nostro Continente. Non è stata vinta neppure dal più lungo e angoscioso dopoguerra che la storia ricordi, quando sull’Europa, e in particolare sulla Germania divisa, si addensarono tensioni politiche che più di una volta fecero temere il peggio. Non ha avuto ragione di essa neanche il colonialismo più volgare che sia stato dispiegato a danno di interi popoli. Non è venuta meno neppure quando sembrava che i cavalli dei cosacchi stessero per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro. Il palcoscenico anti-europeo – ma a suo modo paradossalmente “europeista” – improvvisamente s’è popolato di soggetti che fino a qualche tempo fa servivano Stati che utilizzavano l’Europa soltanto come teatro neutrale per scontri diplomatici, per ricatti politici, per guerricciole sui diritti dell’uomo. Soggetti che non hanno mai alzato la voce davanti al Muro di Berlino e hanno lasciato che l’odio crescesse e maturasse al di qua della “cortina di ferro”, nei Balcani che sarebbero stati insanguinati dall’intolleranza tribale e ideologica; gli stessi soggetti che non si sono accorti come nel cuore dell’Europa alcuni milioni di albanesi fossero tenuti in schiavitù da una tirannia sanguinaria. Chi oggi alza il calice in segno di vittoria cosa ha fatto fino a ieri perché l’Europa fosse liberata dai barbari? Sono questi stessi soggetti che avversano l’idea dell’Europa politica e delle identità culturali. E, a diverso titolo, come terminali dell’alta finanza e della tecnocrazia, si della moneta che certo non fa bene agli altri venti milioni di disoccupati che tali purtroppo resteranno, né offrirà maggiori occasioni di coesione agli Stati membri nei quali è destinata a crescere la diffidenza dell’uno verso l’altro, come hanno dimostrato le vicende legate alla designazione del presidente della Banca centrale europea. Le nazioni, anche di dimensioni e natura continentali, non si fondano sui “concerti”, più o meno intonati, ma su un comune sentimento di appartenenza.
L’Europa che dovrebbe nascere negli ambulacri della tecnocrazia e dell’alta finanza, dove sono state dettate le regole di Maastricht, non ha niente di tutto questo. Essa, al contrario, nasconde (e neppure tanto bene) il conflitto latente tra gli Stati dell’Unione, i quali, come tutti i commercianti del mondo, cercano di ricavare il massimo dalla loro posizione a danno di altri. Se non si acquisisce una chiara idea di nazione, non ci sarà una possibile Europa. (…)