Pil, import-export, avanzo primario, indice azionario, deficit di bilancio, debito pubblico: ma è davvero solo intorno a questi parametri che si misura lo stato di salute di una comunità o non aveva forse ragione quel giornalista, non ancora Duce degli italiani, a voler cogliere nei dettagli della cronaca spicciola «gli scricchiolii sinistri che spesso annunciano il crollo di una società»? Fosse buona la seconda, dovremmo concluderne che siamo messi tutt’altro che bene, visto che le notizie che quotidianamente ci apparecchiano social media, tv e stampa ci consegnano l’immagine di un Paese imbarbarito, tutto diritti e zero doveri, privo di freni inibitori e spesso addirittura fuori controllo. Non serve, per rendersene conto, scomodare dati e statistiche su omicidi, femminicidi e infanticidi ma, appunto, attingere dal pozzo delle piccole notizie. L’ultima in ordine di tempo racconta di due giovani mamme di un comune del Salernitano venute quasi alle mani al culmine di una singolare sfida su chi, tra loro, possedesse il “lato B” più procace. Uno scontro tra glutei avvenuto in pieno giorno, in pubblico e a pochi passi da una scuola elementare. Entrambe sostavano lì in attesa dell’uscita dei loro figli. Solo l’intervento degli altri genitori – informa il Mattino – ha impedito che l’infuocata disputa chiappologica degenerasse in zuffa dopo che una delle duellanti era pronta ad alzarsi la gonna per meglio argomentare le proprie ragioni.
Una scenetta persino divertente, ma che racconta meglio di un trattato sociologico quale considerazione riscuota ormai, anche nella provincia profonda, quello che un tempo chiamavamo il comune senso del pudore. E già a rievocarlo scappa da ridere. E si potrebbe continuare ricordando liti e pestaggi per decibel troppo alti, per un’auto parcheggiata male, per un divieto opposto all’ingresso di un animale in un locale e via elencando. È come se un demone impedisse di usare la parola al posto delle mani e come se la truculenza e la tracotanza che imperversano via social dettassero legge anche nei rapporti tra le persone in carne ossa. Viene da chiedersi quand’è che si siamo persi, quand’è che è cominciato questo lento ma inesorabile processo di corrosione civile che ci sta risucchiando verso le caverne quasi obbedisse ad una invisibile macchina del tempo. Vengono in mente Fred e Barney, i protagonisti della saga dei Flintstone che tanto ci divertiva su Carosello. Ricordate? «Wilma dammi la clava!». E Wilma, serafica: «Ma quale clava, Fred. Oggi per liberarsi dalle mosche basta Neocid». Come a dire: Antenati sì, ma progrediti. Noi, invece, regrediamo pur essendo posteri.
E torna il punto di domanda: quand’è che ci siamo persi? Ovviamente, non esiste un’ora X. Tanto più che il discorso pubblico sul carattere degli italiani è vecchio di almeno tre secoli ed ha impegnato, a partire dal ‘700, anche i raffinati protagonisti europei del Grand Tour. Dagli “italiani effeminati” e “inidonei alle armi” di quei decenni e di quelli successivi agli “italiani brava gente” del secondo dopoguerra è stato un continuo discettare sulle nostre caratteristiche. In mezzo c’è l’epopea risorgimentale con l’ambizioso progetto di riscatto della Grande Proletaria e successivamente l’utopia mussoliniana dell’italiano nuovo ancorché ritagliato sulla sagoma dell’antico legionario romano. Retorica pura, dal momento che in privato Mussolini riconosceva che “governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Più o meno lo stesso pensava Giuseppe Prezzolini, per il quale la riforma più urgente di cui come popolo abbisognassimo era “quella del carattere”. E molto prima di luiera stato Giovanni Amendola a gridare “quest’Italia non ci piace!”, a plastica conferma chemoltaparte della nostra vicenda unitaria è marcata da questo confronto carsico sul nostro modo di essere popolo. Ci siamo divisi tra arci e anti-italiani e persinodel fascismo “autobiografia della Nazione” (copyright di Piero Gobetti) si è data una lettura palindroma: somma di pregi e difetti nazionali, per alcuni; traccia di un vincolo indissolubile tra il destino del movimento mussoliniano e quello dell’Italia.
Questo ieri. Oggi invece il discorso pubblico sugli italiani è un torrente essiccato. Sopravvive come un paragrafo minore della più vasta area della polemica politica, pure questa sempre più primitiva. Anche per questo ci siamo inselvatichiti. Ostentiamo colli, braccia e gambe tatuate, nei rapporti interpersonali abbiamo abolito tanto il “lei” quanto il “voi” (risparmiato invece dal fascismo) a tutto vantaggio del “tu”, ormai utilizzato a prescindere dall’età e dal ruolo dell’interlocutore e persino dal contesto (osservare i siparietti serali tra politici e giornalisti, please). A questa estetica del degrado fisico e comportamentale fa da pendant una vera e propria catastrofe esistenziale, come ben testimonia l’uso abnorme di psicofarmaci tra i giovani (l’11 per cento di ragazzi e il 15 delle ragazze), di droghe (secondo stime del Dipartimento delle politiche antidroga riferito al 2022 il 28 per cento di ragazzi tra i 15 e i 19 anni ne hanno fatto e ne fanno ancora uso) e di alcol (quasi due milioni di adolescenti, pari al 78 per cento, risultano esserne consumatori). Perché? Da decenni una certa cultura di sinistra utilizza il termine draivizzazione (da Drive in, trasmissione cult delle reti del Biscione) per imputare la genesi dell’involgarimento dei costumi all’egemonia della tv commerciale degli anni ’80.
Vero o falso, poco importa. Ma è quantomeno sospetto che questa stessa cultura si atteggi oggi a parte lesa, autoproclamandosi “Italia migliore” contrapposta alla berlusconiana “Italia alle vongole”, quando solo ieri gonfiava l’onda anomala del ‘68 non disdegnando di surfare sulla sua cresta persino quando divenne lo tsunami che di lì a poco avrebbe cancellato dalla società ogni riferimento a concetti come severità, dovere, gerarchia, autorità, decoro, etica della responsabilità, ritenuti troppo costitutivi del decrepito ordine capitalistico-borghese e troppo compromessi con la vecchia retorica fascista. Il risultato di questa devastazione valoriale è una scuola che non seleziona, una famiglia che non educa e una politica che non offre esempi. Con queste premesse chi può stupirsi se i moderni genitori sono i migliori avvocati dei propri figli laddove quelli di ieri ne erano i giudici più severi? O se la famiglia ha cessato di agire in osmosi con la sfera pubblica per trasformarsi in un guscio a protezione esclusiva dei propri componenti che considera come estranea, se non addirittura ostile, persino la scuola? La valanga di ricorsi al Tar contro le bocciature sta lì a dimostrarlo. Una deriva inarrestabile che, come le salernitane natiche della discordia, descrive meglio di un trattato il degrado comportamentale che avvolge sempre più famiglie. E ha un bel dire lo psichiatra Paolo Crepet nel sottolineare che “i genitori che attaccano i docenti uccidono i propri figli”.
Parole sante. Ma quale esponente politico, quale partito, quale istituzione avrà il coraggio di adottarle? Toccherebbe, per storia e per intima vocazione, al blocco del destra-centro. Certo, farsi carico del deserto di valori e di riferimenti che circonda oggi i giovani non è sforzo che può trovare spazio in un decreto. Ma è altrettanto vero che il governo di una nazione non si esaurisce nella pur rilevante rimodulazione delle aliquote Irpef o nella pur meritoria tutela del made in Italy e neppure nella impari sfida per l’egemonia culturale. Più di destra è la saldatura tra generazioni, territori (ahi, la sciagurata autonomia differenziata!) e ceti sociali. Così come è di destra reintrodurre nella politica l’etica della responsabilità: più autodenunce e meno denunce contro ignoti. L’imperativo, insomma, è superare lo scempio attraverso l’esempio. Diversamente nulla funzionerà e noi continueremo a rinculare verso le caverne. Del resto, si sa, il pesce puzza sempre dalla testa. E gli italiani, si sa anche questo, mai si farebbero scappare l’occasione per ricordarlo.