Solo fino a qualche mese fa ci si dannava l’anima per trovare una soluzione alle oscillazioni dello spread. Poi, come d’incanto, questo termine è sparito dalle cronache e del suo scivolamento nell’irrilevanza nessuno fa più caso, laddove altri termini con la loro aggressiva penetrazione si impongono. Job act è solo l’ultima astrusità in ordine di tempo, ma in questi anni ci siamo sorbiti di tutto: antitrust, devolution, default, bond.
C’è stata infatti da parte della politica una sovra utilizzazione di termini stranieri che sta producendo disastri perché ora non definisce più l’eccezionalità di uno strumento comunicativo ma la normalità. Ciò non esclude che dobbiamo fare i conti con lo spirito del nostro tempo. I contatti mediati dalle tecnologie e l’intensità e la velocità con la quale si svolgono danno un senso di ibridazione e di vitalità che nessun altra epoca storica ha conosciuto. La comunità scientifica oramai parla in inglese e il fatto che, per esempio, il Politecnico di Milano abbia deciso di tenere le lezioni e gli esami dei corsi di laurea in quella lingua è un segnale fortissimo. Qui però non si tratta di rivendicare un’eredità umanistica difficilmente riproponibile nella sua interezza, tuttavia nemmeno ritenere che la nostra lingua sia un ostacolo all’internazionalizzazione. Si tratterebbe più semplicemente di difendere e conservare la propria cultura sottraendosi ad un suggestivo e tutt’altro che innocente declivio. Ogni lingua che si perde è infatti una cultura che svanisce e la scarnificazione della identità passa non solo dal depauperamento industriale o economico ma anche dall’arrendersi al fatto che la diversità delle culture sia un freno al progresso.
In un contesto simile risulta ancora più deprimente, oltre che singolare, che addirittura il linguaggio istituzionale mostri la propria inadeguatezza. Chi rappresenta l’Italia al massimo livello dovrebbe infatti essere refrattario a sostenere un simile scempio e invece le più alte cariche dello Stato si stanno improvvisamente popolando di soggetti che si adeguano a questo stato di cose e utilizzano in ogni contesto termini inglesi.
E’ pur vero che vi sono delle eccezioni. L’economia globalizzata e la tecnica forgiano costantemente neologismi intraducibili di cui è difficile tenere il passo. Ma nella quasi totalità dei casi esiste una specifica parola italiana corrispondente e la scarsa consapevolezza che in genere mostrano i politici nel fare questo piccolo sforzo palesa non solo l’annichilimento del pensiero ma anche l’impossibilità ad immaginare un destino diverso per il nostro Paese.
Eppure non è stato sempre così. L’italiano ha infatti sempre goduto di ottima diffusione, anche in periodi tormentati come quello pre-unitario dove nel contesto internazionale eravamo davvero irrilevanti. In passato, è stato impiegato per le transazioni marinaresche, anche in assenza di interlocutori italiani; ha avuto ripetuti impieghi nella diplomazia dei Balcani e nell’Oriente della Turchia Ottomana. E finanche il documento che fonda la legittima proprietà delle sculture del Partenone da parte del British Museum fu redatto nella nostra lingua. Nel rivelarci questo cose, il bel libro di Francesco Bruni, L’italiano fuori dall’Italia (Cesati editore, pp.270) fa evincere anche una idea di grandezza italiana che ha dunque travalicato il nostro specifico peso economico o politico.
L’impressione che se ne ricava è che gli attuali politici stiano consapevolmente rinunciando a tutto questo perché non hanno interesse ad ammettere contraddizioni e cedimenti. Da sempre, infatti, l’arte della politica si fonda sulla capacità di persuasione del pubblico ma in questo caso l’uso strumentale del linguaggio è diventato patologico. L’idea di mantenere volutamente un divario tra chi comprende termini quasi indecifrabili e chi fa fatica ad interpretarli rivela un fondo teorico da pensiero unico. Chi infatti resta fuori dalla comprensione è di conseguenza escluso dai processi partecipativi della democrazia.