La Corte Costituzionale ha ridotto in macerie la legge Calderoli sull’autonomia differenziata. Una legge smaccatamente sfascista dal momento che si prefigge di trasformare l’Italia, «una e indivisibile», in un puzzle di staterelli semindipendenti e irrilevanti, com’era ai tempi della buonanima di Metternich che proprio per questo, non a caso, la definì una «mera espressione geografica». Ma torniamo alla Consulta: ben sette – informa il comunicato stampa diffuso al termine della seduta (la sentenza arriverà) – sono i punti sui quali è calata la mannaia dell’illegittimità dei giudici, attivati dai ricorsi presentati dalle regioni rosse. Il più significativo riguarda la devoluzione delle competenze dallo Stato alle regioni: non più intere materie, com’era nel testo parzialmente rigettato, bensì solo singole funzioni, di cui sia giustificata la necessità. Un colpo letale alle “repubblichette” immaginate da taluni governatori, con in testa il “doge” Luca Zaia. Il Parlamento – secondo punto – cessa di essere muto astante nel processo di devoluzione di competenze, ma deve poter intervenire, emendandolo, sul testo delle intese Stato-regioni che la “Calderoli” aveva invece sottratto al sindacato delle Camere.
Il terzo aspetto riguarda i Lep (gli ormai famosi livelli essenziali delle prestazioni): non sarà più un Dpcm (atto monocratico del presidente del Consiglio) a definirli ma la legge e, quarta novità, non potranno essere stabiliti sulla base della spesa storica; il quinto rilievo riguarda la bocciatura della norma che attribuiva al governo il potere di modificare con decreto ministeriale la quota di tasse statali da destinare alle regioni per finanziare i nuovi servizi trasferiti; cassata anche la parte della legge che estendeva l’autonomia differenziata alle regioni a statuto speciale; la Corte, infine, ha fissato un principio fondamentale in base al quale il decentramento dei poteri deve avvenire “in funzione del bene comune”. Significache obiettivo dell’autonomia non è la suddivisione del potere politico tra Stato e regioni, ma il miglioramento dei servizi per i cittadini.
Fin qui la Consulta, con il suo carico di obiezioni in termini di legittimità costituzionale. Poi c’è la politica. E qui l’aspetto che più colpisce, almeno a giudizio di chi scrive, è la sostanziale indifferenza che al di fuori del recinto dei partiti ha accolto il verdetto prima succintamente riportato. Un silenzio addirittura assordante che ha avvolto in un’atmosfera a dir poco surreale le chiassose polemiche insorte intorno alla legge prima, durante e dopo la sua approvazione e che ha scavato un fossato incolmabile tra il villaggio e il Palazzo, tra Paese reale e Paese legale. E sì, perché secondo la vulgata leghista quella dell’autonomia differenziata rappresentava una riforma epocale, anzi, per dirla con il titolo del libro sfornato per l’occasione da Zaia, una «rivoluzione necessaria». Ma se così, perché quando la Consulta l’ha bucata come un palloncino, svuotandola di senso e di contenuto, non è insorto nessuno? Elementare, Watson: perché l’autonomia differenziata non incrocia alcuna esigenza reale del Paese. È una norma-manifesto, una bandierina se si preferisce, funzionale esclusivamente alla realizzazione di un progetto politico minoritario, la macro-regione settentrionale, che altro non è se non la traduzione geo-burocratica dell’antica Padania vagheggiata da Umberto Bossi.
Non dunque il Nord, con la sua vivace e attrezzata realtà imprenditoriale, associativa, organizzativa ma i suoi governatori pro-tempore, con la loro bulimia di potere, sono i veri ed unici sostenitori della soluzione cosiddetta federalista. Il Nord che lavora e che produce sa anzi fin troppo bene che un’azienda che pensasse ed agisse come pretende di fare la Lega nei rapporti tra Stato e Regioni, cioè sdoppiando le competenze e quindi raddoppiando costi e procedure burocratiche, fallirebbe nel giro di poche settimane. Ne tengano conto i naviganti, cioè i signori del governo, quando si appresteranno a rimuovere le macerie lasciate dai giudici delle leggi allo scopo di rimetter su una riforma che stia in piedi. S’accomodino pure, ma li accompagni la consapevolezza che l’obiettivo para-secessionista non è del Paese, delle sue imprese, dei suoi territori, dei suoi lavoratori, delle sue forze vitali, ma è concepito e perseguito esclusivamente a maggior gloria di un ceto politico smanioso di passare all’incasso di più lauti dividendi di potere legislativo ed amministrativo.
E bene farebbero – gli stessi naviganti – a leggere in profondità lo stop della Consulta, estendendolo anche alla metodologia delle bandierine seguita nell’approcciare il tema delle riforme. Il trittico autonomia alla Lega, premierato a Fratelli d’Italia e separazione delle carriere a Forza Italia, lungi dal rappresentare una feconda sintesi politica, certifica esclusivamente la mancanza di “tocco di palla” da parte dell’attuale maggioranza in materia di modifica della Costituzione. Obiettivo difficile per chiunque ma che il centrodestra, nell’illusione di consolidarvi un equilibrio interno, ha reso addirittura proibitivo. Del resto, se tre bambini si contendono lo stesso giocattolo nessuno penserebbe di darne una parte a ciascuno perché sarebbe il modo migliore per scontentarli tutti dopo aver, per giunta, rotto il giocattolo. È quel che sta accadendo per aver messo su binari paralleli due obiettivi – modifica della forma dello Stato (autonomia) e modifica della forma di governo (premierato) – destinati ad intrecciarsi e a condizionarsi vicendevolmente. La logica dei compartimenti stagni, per cui la prima è riserva di caccia elettorale del partito di Matteo Salvini e la seconda appannaggio esclusivo di quello guidato da Giorgia Meloni, complice anche la circostanza che, tra le due, solo l’autonomia era ottenibile attraverso la legge ordinaria, ha così privato il Parlamento del necessario orizzonte giuridico-costituzionale entro cui calare il testo di una riforma armonica e complessiva. Una strada tuttora percorribile per una legislatura ancora giovane.
Tanto più che la sentenza della Consulta, pur demolendola nelle sue strutture portanti, ha dichiarato la cornice della legge Calderoli non in contrasto con il Titolo V della nostra Costituzione. Quale, però? Non certo il testo del 1948 bensì quello del 2001, così come sfigurato dalla sinistra dell’epoca. Il peccato originale, inteso come la possibilità di spaccare l’Italia a colpi di devoluzione di materie, è lì. Non a caso l’ultimo colpo battuto dal governo Gentiloni – anno 2018 – fu la sottoscrizione delle pre-intese con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, a plastica conferma che la cornice giuridica per trasferire competenze dallo Stato a quelle tre regioni preesisteva alla legge Calderoli, vigente solo dal giugno scorso. Se tanto ci dà tanto, quale miglior viatico per indurre la maggioranza ad aprire una riflessione approfondita, ariosa e non propagandistica sulle soluzioni da mettere in campo per ammodernare il nostro arrugginito apparato istituzionale? Partendo da una consapevolezza: l’autonomia della sinistra (Titolo V) che piace alla Lega (legge Calderoli) è figlia di un contesto, interno ed internazionale, che non c’è più. Essa stata disarcionata dallo spirito dei tempi prima ancora che dai giudici della Consulta. La competizione globale su scala continentale o sub-continentale sta disegnano nuove gerarchie internazionali, quasi ovunque appoggiate a grandi spazi geopolitici. Sotto questo profilo i protagonisti politici dell’Europa – anche per effetto della presidenza di Donald Trump – sono già oggi di fronte a un bivio: proseguire su nuove basi il processo d’integrazione o tornare all’antico. In nessuno caso, tuttavia, si può pensare a depotenziare lo Stato nazionale, pena la sua irrilevanza in un’arena popolata da giganti. Senza tralasciare che l’autonomia si può declinare in tanti modi virtuosi ed efficienti, due aggettivi che storicamente mal s’attagliano alle performance del nostro regionalismo, che spesso e volentieri ha fatto rima con sfascismo.