
Il governo di Giorgia Meloni ha superato il giro di boa di metà legislatura ed è ora il quinto di sempre per longevità dell’Italia repubblicana. Un traguardo che la premier ha voluto legittimamente sottolineare con un video nel quale ha anche rilanciato il tema del premierato, da tempo in naftalina. È anche vero che celebrando il primo ha rischiato di depotenziare l’annuncio del secondo fino a far percepire come inutile l’elezione diretta del presidente del Consiglio, presentata dalla sua maggioranza come un elisir di lunga vita per i governi. Perché introdurla in Costituzione – potrebbe obiettare chiunque dopo il video – se l’obiettivo della stabilità politica è già realizzato in sua assenza? Fortunatamente per la Meloni, la politica in assetto talk-show non contempla sforzi di approfondimento e così il rischio di un possibile effetto-boomerang è evaporato ancor prima di nascere.
Ma il video della premier è anche l’occasione per un’escursione sul tema e per chiedersi se davvero il premierato rappresenti un efficace toccasana per le fatiscenti istituzioni italiane. Ci permettiamo di dubitarne, anche a dispetto degli incontestabili numeri sciorinati dalla Meloni: 68 governi in 79 anni di democrazia parlamentare è roba da Guinness dei primati (negativi, ovviamente). Ma una lettura meno superficiale di quel dato, soprattutto in riferimento all’esperienza della Prima repubblica, impone anche di considerare che all’epoca la micro-stabilità degli esecutivi poggiava su una rocciosa macro-stabilità di sistema. Se allora i presidenti del Consiglio duravano meno di una farfalla effimera, il regime partitocratico che orbitava intorno all’inossidabile perno democristiano sembrava destinato a sfidare i decenni. Solo la caduta del Muro di Berlino e il conseguente crollo del comunismo realizzato, complice anche il “manipulitismo” giudiziario e l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, che fece da lievito al bipolarismo degli anni ’90, riusciranno infatti a liberare la democrazia italiana da quella bardatura.
Ma non anche a debellare il virus della instabilità, la cui presenza continuerà a minare la anche durata degli esecutivi della Seconda repubblica: il primo, a guida Berlusconi, morirà addirittura settimino e solo poco più di un anno quello presieduto da Lamberto Dini, mentre la legislatura a seguire vedrà alternarsi alla guida di Palazzo Chigi Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato. L’unico a salvarsi dalla grande moria di esecutivi della Seconda repubblica sarà il Berlusconi-bis (sostituito da quello ter dal 2005 al 2006). Ma è un lampo, appunto. Subito dopo riparte la giostra: al Prodi-bis, che non resiste oltre i due anni, succede il Berlusconi (ormai quater), la cui maggioranza imploderà tre anni dopo per spianare la strada a Mario Monti. Altro giro, altra corsa ed è la volta di Enrico Letta, quindi di Matteo Renzi e, infine, di Paolo Gentiloni. Nuovo gongelettorale e dalle urne vien fuori il governo giallo-verde del grillino Giuseppe Conte. Tempo un anno e cambia tutto, eccetto il premier: il verde leghista lascia il posto al rosso piddino fino all’arruolamento di Mario Draghi. Il resto è l’oggi nel segno della stabilità del governo di Giorgia Meloni, quantunque anch’esso segnato e indebolito da distinguo, divergenze e turbolenze, soprattutto in politica estera. In tutto fanno 15 esecutivi in trentennio: uno ogni due anni.
Una performance appena un po’ più accettabile di quella registrata ai tempi della vecchia Balena democristiana. Con la differenza che la macro-stabilità di sistema a suo tempo imposta dallo stato di necessità della Guerra Fredda non c’è più. E non è poco. L’obsolescenza di quel termostato politico, in uno con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario con al centro le coalizioni e non più i singoli partiti, ha infatti mandato in ebollizione il sistema. Così come l’eclissi delle identità politiche a tutto vantaggio di schieramenti assemblati più per vincere le elezioni che per governare dopo averle vinte, ha trasformato gli elettorati in tifoserie sempre più schiacciate dal peso delle rispettive propagande. Si chiama polarizzazione ed è un fenomeno che sta contagiando le democrazie di mezzo mondo. L’Italia vi ha fatto da apripista, e solo per questo quelli che la sanno sempre più lunga degli altri ne hanno addossato la responsabilità a Silvio Berlusconi, fondatore e simbolo – a loro dire – di un bipolarismo negativo e muscolare. Ma ora che il Cavaliere ha traslocato nel mausoleo di famiglia quegli stessi sapientoni non ci spiegano come mai la polarizzazione non solo non è rientrata ma si è persino accentuata.
A differenza del recente passato, infatti, l’incomunicabilità tra i due poli sembra ora un dato strutturale del bipolarismo, mentre il confronto destra-sinistra somiglia sempre più ad un incontro di wrestling, cioè spettacolare e agonistico nella forma ma posticcio nella sostanza. Molto vi contribuisce l’abnorme ricorso a una comunicazione social gestita in proprio da ciascun esponente politico, quasi sempre senza filtri da parte dei rispettivi partiti e non di rado in contrasto con le strategie approntate dagli organismi dirigenti. Da qui il quotidiano spettacolo a base di gaffes clamorose, accuse incrociate, richieste reciproche di scuse, smentite, precisazioni e rettifiche, frutto avvelenato – a sua volta – di un registro comunicativo fuori decibel, il cui target non è l’indeciso bensì chi già è adepto. Apposta i monologhi hanno rimpiazzato il confronto mentre l’intervista si concede solo al giornalista amico. Il prezzo di questa polarizzazione lo paghiamo in termini di astensionismo elettorale, indifferenza civile e delegittimazione politica. L’interrogativo è più che mai d’obbligo: basterà il premierato per uscirne? Forse no, se solo consideriamo che alle elezioni regionali vota ormai meno della metà degli aventi diritto nonostante si scelga direttamente il governatore.
La questione è in realtà un po’ più complessa per comprimerà negli schemi di sempre. A cominciare dalla pretesa “superiorità morale” della democrazia diretta, il cui rovescio non è – come spesso si dice anche a destra – la manovra di palazzo o il compromesso oscuro. I concetti da cui partire sono altri: mediazione e disintermediazione. Il primo affianca alla sovranità del cittadino la centralità del Parlamento, il secondo riconosce solo la prima. È una tendenza che in Italia va consolidandosi anche per effetto dei tanti strappi e delle troppe forzature compiuti dall’establishment, spesso per favorire governi privi di qualsivoglia legittimazione popolare, che hanno hanno finito per lacerare il fragile tessuto che teneva unito i cittadini ai propri rappresentanti. I due concetti – popolo e Parlamento – hanno pedalato in tandem nei cinquant’anni della Prima repubblica, poi sono stati scissi nella Seconda per diventare alternativi l’uno all’altro in questa terra incognita che è diventata la politica al tempo della disintermediazione, tipica della “società liquida” teorizzata da Zygmunt Bauman. E siamo al bivio: proseguire sulla strada della separazione tra rappresentati erappresentanti o tornare al binomio popolo-Parlamento su basi nuove? Per continuare sulla prima strada il premierato va benissimo, purché ci sia consapevolezza che accentuare la polarizzazione della società può metterne a rischio la coesione, con quel che ne può conseguire in una nazione percorsa da divisioni di ogni genere. Se invece si sceglie la seconda, non si potrà che ripartire dalla reintroduzione della legge elettorale proporzionale al fine di restituire nerbo e protagonismo alle identità dei partiti oggi scolorite nell’incoerenza politica-programmatica di coalizioni extralarge.
Ne fa fede il tema dell’autonomia differenziata: obiettivo imprescindibile per Salvini, boccone indigesto per la Meloni. Parliamo della disarticolazione dello Stato unitario uscito dal Risorgimento, non di pizzi e fichi. Eppure la premier dovrà fare buon viso a cattivo gioco in nome del dogma dell’intangibilità dell’assetto bipolare che ci ubriaca da circa un trentennio. Ma è questa vera stabilità? Sono in tal senso affidabili schieramenti che si presentano agli elettori come falangi macedoni e poi, una volta al governo, si rivelano più sbrindellati di un’armata Brancaleone? Non sarebbe più serio fare il contrario? Che sia questa la strada del futuro è conferma che arriva, seppur indirettamente, dalla stessa Meloni nel momento in cui è intervenuta al congresso di Azione dove non ha mancato di sottolineare i punti di convergenza con quel partito. Eppure il suo leader, Carlo Calenda, è all’opposizione mentre Salvini, che il controcanto alla premier lo fa ormai su tutto, resta in maggioranza. Strano? No, è quel che succede quando si pretende di ingabbiare la realtà in formule astratte.
Lo sanno bene in Germania, non proprio una democrazia di “serie B”, dove le alleanze seguono e non precedono le elezioni. Lì i cittadini votano i loro rappresentanti al Bundestag ma ciò nonostante i governi reggono solitamente l’intera legislatura, e tutti o quasi conosciamo o ricordiamo i nomi di Angela Merkel, Helmut Kohl, Willy Brandt, Helmuth Schimdt o di Gerard Schroeder. A conferma che il valore della stabilità politica non fa a pugni col sistema elettorale proporzionale e che la popolarità dei premier non è appannaggio esclusivo dell’elezione diretta. Ma capiamo l’imbarazzo di chi dovrebbe lasciare la via vecchia per la nuova. Per anni, del resto, la destra ha giustamente considerato le coalizioni come l’unica soluzione per scongiurare la dura ghettizzazione a lungo patita. Ma è anche vero che quel tempo è finito: la conventio ad excludendum che per mezzo secolo ha sagomato la prima Repubblica è stata abbattuta per via democratica e ora non c’è più.
Nessuno, sia chiaro, può o vuol negare al bipolarismo il merito storico di aver trasformato gli antagonisti di ieri (di destra e di sinistra) nei protagonisti di oggi, fino a vedere assegnare a Giorgia Meloni l’onore e l’onere di guidare l’esecutivo. Ma ora che ha assolto alla sua funzione di sdoganamento dei due poli esclusi della Prima repubblica (comunista e missino), non ha più senso aver paura o diffidare del ritorno del proporzionale, unico meccanismo in grado di restituire ruolo ai partiti, concretezza alle coalizioni post-elettorali di governo e stabilità al sistema. Tre precondizioni intorno alle quali sarà poi possibile costruire un’ipotesi di State-building, un progetto di rifondazione dello Stato, che abbia come unico obiettivo la rivitalizzazione delle istituzioni e come unica bussola l’interesse nazionale. Certo, nessuno può ignorare o sottovalutare le convenienze elettorali, anch’esse legittime. Ma è altrettanto vero che Giorgia Meloni può guardare con fiducia alla prospettiva di una modifica delle regole del gioco. Chi i voti li ha non ha nulla da temere da un cambio della legge elettorale, esattamente come non ha nulla da sperarvi chi i voti non li ha. È di tutta evidenza, infine, che tanto a destra quanto a sinistra le coalizioni si tengono ormai con lo sputo. La premier, insomma, deve decidere se legare il proprio nome al traghettamento dell’Italia verso la sua Terza repubblica o se, al contrario, farne il principale titolo di coda dell’agonizzante bipolarismo. Non è una scelta facile, ma restiamo in fiduciosa attesa.