• 16 Settembre 2024
Editoriale

A dar retta a quanto scritto dal Foglio il 31 agosto scorso (significativamente smentito solo da un portavoce di Bruxelles e non anche dall’omologo di Palazzo Chigi) pare che il “no” di Fratelli d’Italia al bis di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue sia risultato tutt’altro che indigesto all’inquilina di Palazzo Berlaymont. Sempre confidando nella veridicità del retroscena pubblicato dal quotidiano di Claudio Cerasa, parrebbe addirittura che il gran rifiuto degli europarlamentari di Giorgia Meloni a intrupparsi nella nuova “maggioranza Ursula” sia stato concordato e condiviso passo passo tra le due bionde leader, compreso l’aiutino sottobanco di consensi FdI seguito dalla sorprendente rivendicazione del voto contrario ad elezione già avvenuta. Una vera sceneggiata brussellese dettata dalla necessità di non infoltire le schiere di possibili franchi tiratori annidati nei gruppi Socialisti e Verdi, già messi a dura prova dal dover ingoiare il mandato bis di una esponente Popolare e perciò del tutto indisponibili a sommare i propri voti anche a quelli della destra. Un classico gioco di palazzo cui la Meloni si sarebbe prestata volentieri chiedendo come moneta di scambio, tra le altre cose, un trattamento per l’Italia non inferiore neppure di un’oncia a quello riservato alla Francia nella composizione della nuova Commissione. Un gioco di palazzo, aggiungiamo, in tutto simile a quelli tanto esecrati in patria dal partito della Meloni, che proprio sulla programmata volontà di spazzarli via dall’azione politica ha fondato la quintessenza della propria leadership.

“Patto o pacco?”, si chiedeva il Foglio avanzando più di un dubbio sulla reale volontà della rieletta Von der Leyen di onorare l’impegno (e, detto fra noi, la smentita del portavoce di Bruxelles sembra avvalorare più la seconda opzione che la prima). Si vedrà. E a dire il vero neanche ci interessa approfondire in questa sede il tasso di lealtà a base dell’accordo. Molto più interessante ci sembra è evidenziare lo iato tra la narrazione offerta dal partito della premier e la prassi politica cui, per fortuna, non disdegna di ricorrere (e, ridetto fra noi, la mancata smentita del portavoce di Palazzo Chigi è, in tal senso, meglio di un “silenzio cantatore”) quando la necessità lo esige. La polpa è tutta qui, nella distanza siderale tra la rivendicazione orgogliosa da parte della Meloni di una politica senza compromessi, allergica ai giochi di palazzo, nemica giurata delle camarille di potere e la mirabile capacità della stessa di adattarsi alla penombra dei corridoi, l’humus ideale per stipulare accordi tanto opachi nella forma quanto fecondi nella sostanza. “E’ la politica, bellezza”, verrebbe da dire pensando ad Humphrey Bogart. La stessa politica, per intenderci, contro la quale s’infranse anni or sono il mito incapacitante della diretta streaming dei buontemponi grillini. E sulla quale rischia oggi di spezzarsi anche l’armamentario propagandistico a sostegno del premierato se continuerà a reggersi unicamente sulle punte aguzze di questa (molto) presunta superiorità della democrazia senza mediazioni sulla politica filtrata dalle liturgie dei partiti, per quanto estenuanti e stucchevoli, quasi che l’affermazione della prima potesse liberarci demblée dall’ipoteca delle seconde. Ma è un’illusione.

Una scena avrà sempre bisogno di un retroscena, spesso intervallata da una messinscena dissimulatoria. Apposta la politica è definita un’arte. Se fosse stato un affare esclusivo di energumeni, non saremmo usciti dalle caverne e non studieremmo pensatori come Machiavelli né ammireremmo statisti del calibro di Richelieu o di Mazzarino. Certo, personaggi di un’epoca in cui le masse non avevano ancora fatto irruzione sul proscenio della storia, eppure qualcosa dovevano già contare se 2500 anni fa Platone a Aristofane esortavano a diffidare del plebiscitarismo e non facevano mistero di considerare la democrazia un terreno fertile per la degenerazione demagogica, a sua volta anticamera della tirannide. Concetti riecheggiati di recente da Norberto Bobbio nella sua Teoria generale della politica, opera del 1999:“Oggi – argomentava il filosofo torinese –democrazia’ è un termine con connotazione fortemente positiva […]. Al contrario nella tradizionale disputa sulla miglior forma di governo, la democrazia è stata sempre collocata allultimo posto, proprio in ragione della sua natura di potere diretto del popolo o della massa, cui di solito sono stati attribuiti i peggiori vizi della licenziosità, della incontinenza, della ignoranza, della incompetenza, dellinsensatezza, della aggressività, della intolleranza”. Per dire che la politica ha sì bisogno del popolo come fonte di legittimazione, ma senza che questo suoni rinuncia ad avvalersi di un motore immobile nel governo del cambiamento. Un equilibrio che il genio politico dei Romani aveva condensato nell’acronimo SPQR. Al contrario, cedere alla tentazione, come spesso sembra fare il partito del premier, di voler esaurire la prassi politica nel rapporto preferenziale o esclusivo con il popolo è esercizio di pura demagogia destinato a cozzare contro le dure repliche della realtà.

Lo dimostra proprio il contenuto del citato retroscena del Foglio. Per chi scrive leggerlo è stato un sollievo (ancor di più la mancata smentita da parte di Palazzo Chigi) perché ci ha fatto capire quanto la tiritera dei Fratelli d’Italia contro i giochi di palazzo sia in realtà solo uno storytelling ad esclusivo uso interno, un grezzo impupazzamento del premierato in vista di un eventuale referendum basato sul fatidico quesito: “Volete voi che il presidente del Consiglio sia eletto direttamente o che lo scelga il Parlamento (sottinteso: a prezzo di indicibile fetenzie)?”, mentre la realtà è (per fortuna) ben diversa. E ci consegna una premier che non rimane a contemplare i compromessi altrui ma è capace di stipularne di suoi in nome dell’interesse nazionale, e senza perdere di vista le pur rilevanti convenienze di gruppo o di partito. Insomma, la Meloni che sa dialogare con i cittadini da consumata comunicatrice di massa fa ben sperare, ma ancor di più ci rassicura la Meloni che tratta nelle segrete stanze del potere dettando e accogliendo condizioni perché sa che è solo così che prende forma e corpo una decisione politica. Brava, dunque, se sulla scena corteggia il popolo; ancor più brava se nel retroscena pratica il possibile e lecito do ut des con i suoi interlocutori istituzionali. Concludendo, solo il tempo ci dirà se quello stipulato con la Von der Leyen è un “patto” o un “pacco”. Ma quand’anche la nostra premier trovasse un mattone al posto del tablet, non bisognerà trarne conclusioni affrettate. In politica può accadere (e se accade!) di non onorare la parola data, specie quando – ammoniva Machiavelli – “sono spente le cagioni che la feciono promettere”. A conferma che i giochi di potere sono vecchi quanto il mondo ma non per questo sono passati di moda. E che non basta una legge sul premierato a confinarli nel baule delle anticaglie.

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).