
Quando si introducono dei dazi, come sta avvenendo per la neo-politica commerciale di Trump, si pensa subito alle relative conseguenze che si possono avere nel medio e lungo termine, inerentemente alla riduzione inevitabile degli scambi commerciali, in realtà la primissima reazione è completamente opposta, ovvero aumentano per effetto del front loading, sia le esportazioni che le compravendite, perché le aziende per evitare gli aumenti sì precipitano sul mercato a fare scorte acquistando più merce possibile, prima che entrino in vigore i dazi, generando un fenomeno di incremento dei problemi.
Un fenomeno apparentemente di scarso rilievo, che sminuisce nel breve il tatticismo dei dazi trumpiano, portando un considerevole aumento delle importazioni statunitensi, dell’8.2% nell’arco di un mese, e tuttavia, genera un ulteriore trend negativo della bilancia commerciale estera americana, che è da sempre differenziata sul negativo, con un deficit delle esportazioni sulle importazioni, rilevando come il debito sia fondato sulla dipendenza dalle risorse estere, superando nell’arco di un mese i 130miliardi.
A trarne maggiore vantaggio sono stati gli investitori e le aziende dei maggiori partners commerciali statunitensi, quali la temibile Cina, l’indomabile Canada, il silente Giappone, tranne l’Europa che conferma una certa resilienza nello stop di apertura verso il tatticismo trumpiano, una volta definito fonte di proibizionismo e protezionismo verso una sovranità statunitense, oggi frodata dalla globalizzazione imperante, tuttavia, la sua tutela, rappresenta una spregiudicata politica commerciale che potrebbe, anzi lo è, nel breve un boomerang di effetto contro l’asset monetario americano e contro il sistema economico reale interno, sebbene volto a contenere il crollo dell’economia americana a causa del suo enorme deficit.
Il protezionismo applicato tra il 1870 e il 1920 sostenne l’industriale con elevate tariffe, circa il 40%, risulta oggi anacronistico per effetto della paradossale globalizzazione che ha mutato le regole, del commercio internazionale, al punto tale che le “tariff nation” non si applicano a pochi Paesi europei, come negli anni Settanta, motore propulsore di una seconda industrializzazione.
Infatti negli anni 20 e poi 29, solo dopo le politiche protezionistiche e solo dopo la Seconda guerra mondiale gli Usa si spingono verso una liberalizzazione dei commerci e verso una cooperazione internazionale, con la nascita del General Agreement on Tarifs and Trade ovvero WTO tradito e disatteso legalmente dai dazi trumpiani e poi giunsero al sostegno dell’economia in Europa attraverso il Piano Marshall.
Il tentativo attuale di rimpolpare le casse americane, tuttavia, con l’applicazione addirittura di dazi universali e reciproci attestati su una media del 20%, inversamente gli Stati Uniti, creano incertezza e gettano nella confusione e nello sconforto i mercati finanziari, generando una guerra commerciale globale e le previsioni di incassare circa 600miliardi per ridurre il deficit di governo, restano al momento un utopico tatticismo sconsiderato. Inoltre, un tatticismo fortemente calcolato, visto la speculazione finanziaria innescata sui mercati azionari, che consentirà ai miliardari di comprare a buon mercato e di dominare, la bolla finanziaria così gonfiata ad arte, che potrà comunque rimpinguare le casse dei grandi elettori trumpiani fiduciosi nel suo programma, protezionistico.
L’Italia sceglie la via della trattativa e del compromesso, declinando dal prendere contromisure, evitando una linea dura, che resta il sistema più saggio per affrontare una provocazione commerciale così pericolosa non solo per l’export del Made in Italy, ma sicuramente per evitare di ovviare a conseguenze di riverbero sull’inflazione interna.Perché è ovvio che in queste circostanze i ricchi diventano più ricchi, e i consumatori convengono ad una minore capacità di spesa. Inoltre, la leadership, italiana, sarà in grado di trattare, al fine di trovare una sintesi di convenienza, come si aspettano tutte le maggiori aziende esportatrici e sicuramente la soluzione di continuità favorirà il montante percentuale del 20% però a fronte di maggiori quantitativi esportati, compensando la percentuale dei dazi, secondo una semplice logica di commercio. Dunque, l’ingerenza politica, in tal caso risolutiva, favorirà un aumento degli export e diminuirà l’esasperazione comunicativa che i media e social stanno esponendo.
Ma la vera catastrofe annunciata, è già in corso sui listini globali finanziari con cali notevoli da Wall Street e oltre, tranne in Europa, in prima istanza, che resta attrattiva, e attraente per gli investitori, grazie all’incremento per la spesa della difesa e del riarmo, in particolare per la Germania, e per alcuni titoli, definendo questo marzo americano il peggior mese dal 2022, infatti optare per i dazi universali sembra la peggiore decisione, sviluppatasi in materia di politiche commerciali americane, degli ultimi tempi, perché al di là delle speculazioni finanziarie, colpirebbe non solo l’America, ma anche tutti i Paesi che hanno scambi commerciali con essa a livello globale. Declinando la leadership di Trump a un fenomeno “sproporzionato”.
Questo inasprimento commerciale, inevitabilmente punta ad una politica troppo protezionistica che induce l’economia Usa ad un forte stress e ulteriore crisi globale, generando uno shock di sistema, apponendo un freno alla crescita economica, che si tradurrà in una crescita debole pari allo 0.2% nel primo trimestre e dell’1% per l’intero anno, con un inflazione che raggiungerà il 3.5% e un tasso di disoccupazione del 4.5%, il tutto complessivamente porterebbe ad una probabilità di recessione del 35% nei prossimi mesi, generando stagflazione come nella fine degli anni 70 e gli inizi degli 80.
E la storia si ripete, all’epoca però si preferì non sostenere la crescita economica ma combattere l’inflazione aumentando i tassi di interesse, oggi la Fed invece con forza taglierà i tassi di riferimento per ben tre volte, come previsto tra il 2025 e il 2026, ma sarà sufficiente?
È evidente che le regole del gioco globale stanno effettivamente cambiando, con conseguenze anche per l’Europa, mentre la Svizzera nella sua neutralità rafforza le relazioni con l’Asia, la Cina, l’Occidente europeo si sveglia da un torpore commerciale free, che annebbia le decisioni, poste in campo e virare per continuare a beneficiare della crescita globale, non sarà semplice.
Gli accordi sono molteplici, e gli orientamenti verso nuovi mercati emergenti necessari, dove l’accesso al mercato è libero, prevedendo poche minacce all’ingresso. La delocalizzazione, verso il mercato americano, per il Made in Italy, non è una soluzione, quanto meno non è previsto nella qualificazione di qualità dell’italianità tutelata, pertanto, poche imprese possono permettersi senza snaturare l’offerta, di fare investimenti in America per ovviare ai dazi imposti.Come Barilla, Ferrero, Leonardo, Menarini, Zegna, per citarne dei più rinomati che possono delocalizzare in America a fronte di investimenti diretti intorno ai 40 miliardi di dollari, con una spinta del Select Usa che sostiene gli imprenditori ad aprire nuove attività, per restare aderenti al mercato a fronte di un enorme mercato di consumer, il più grande al mondo.
Produrre localmente in Usa è un vantaggio per alcune realtà industriali, e lo è più per il paese di riferimento non certo ad esempio per l’Europa, ma anche l’isolazionismo finanziario dei Brands non è possibile, comprometterebbe le relative quotazioni in borsa, un calo degli investimenti sui titoli di riferimento, come sta avvenendo tra il panico finanziario globale.
Parliamo quindi di una politica commerciale non più sovrana, per l’Europa e anche per l’Italia che deve pensare di cominciare a fare delle cessioni, in termini non solo di delocalizzazione, e di reperimento di materie prime per formulare l’offerta in loco, subordinandosi ad accordi ben precisi, per non lasciare nelle mani altrui il mercato dei consumatori americano ed essere presenti a dazi conclusi.Perché i dazi si concluderanno.
Il ciclone Trump, sta stravolgendo l’accesso al mercato, e i valori di approvvigionamento su scala globale dei mercati cambieranno notevolmente, bisognerà adottare nuove strategie nel lungo periodo, con ingenti investimenti per rafforzare la produzione nei luoghi di proiezione aziendale siano essi americani o asiatici, perché il semplice export non si implementerà più solo grazie all’ingerenza politica dei governi o alla semplice cooperazione o trattativa bilaterale, vivrà un reclusione sovranista, subordinata ad un protezionismo poco competitivo.
Certamente per l’agroalimentare italiano, ad esempio, sarà un salto nel vuoto, bisognerà riprogrammare i disciplinari a tutela dei prodotti Dop o Igp per consentire alla nostra identità un’internazionalizzazione notevole, con un fare condiviso, limitando l’invasione commerciale cinese.
I vantaggi possono essere molteplici, un esempio storico, lo abbiamo avuto con gli antichi romani, che hanno saputo diffondere Roma, espandendosi in un Europa senza limiti di confini, perché non diffondere la nostra formazione culturale imprenditoriale anche oltre l’Europa e dunque oltre l’Italia?
L’Unione Europea è più forte unita, ma non solo nella difesa e nel riarmo, anche nella commercializzazione e internazionalizzazione, decentrare il focus delle nostre offerte condividendo nel mondo la nostra cultura potrebbe rendere l’Europa più sovrana, e più competitiva con una politica di integrazione condivisa, globale. La decisione a comportarsi come se ci fosse un super Stato europeo confederato può armonizzare l’Europa ma se essa si avvantaggiasse di una condivisione internazionale, oltre i propri confini, in tal caso, ci sarebbero meno guerre, anche commerciali e meno contrasti e meno regole antiliberali a tutela delle nostre identità. Stiamo cercando dunque di difendere una commercializzazione liberale nei tempi e nei modi di commercio, a fronte di una spinta protezionistica conservatrice.
La cessione, delle sovranità europee, deve essere rivolta ad un’ Europa meno tecnocratica e più propensa a gestire rapporti bilaterali filoamericani, filorussi, filocinesi in un equilibrio delle sorti commerciali, senza utopismo, quindi, essere in Europa e ridurre le nostre sovranità, le nostre identità significa invece armonizzarle e globalizzarle senza freni inibitori, anche se ciò è complesso nel suo divenire e paradossale.
Margaret Thacher, con la sua leadership della “determinazione”, diceva “non abbiamo ridotto le dimensioni dello Stato in Gran Bretagna solo per vederlo espandersi a livello europeo” e affermava : “in una burocrazia non eletta” quindi abbiamo oggi la possibilità di espandere le nostre identità manufatturiere condividendole con altri popoli, con maggiore volontà diffondendo nel mondo una condivisione, uno scambio pacifico sviluppatore e moltiplicatore di benessere.
La Cina insegna in materia commerciale, mentre l’Europa è confusa, al contrario della leadership italiana e non dà sfogo alla sua competitività attrattiva, e la Cina, infatti nel suo Consiglio di Stato, presenta un programma per rimuovere paletti e restrizioni in modo da incentivare investimenti, fusioni, acquisizioni estere, non solo statunitensi, ma anche sudamericane, europee franco tedesche.
Pechino apre i mercati in difesa della globalizzazione, mentre gli Stati Uniti prendono la via dei dazi accentrandosi e arroccandosi, in una forma speculativa finanziaria, resistendo i cinesi all’unilateralismo e al protezionismo tattico di Trump cercando di allentare le tensioni visibilmente annunciate.
Tensioni sui mercati americani, che si sviluppano in una sorta di autogol, perché tra gli investitori si è diffuso il timore che le ricadute dei dazi peseranno notevolmente sull’economia Usa che rischia anche di perdere quella posizione di espansionismo a favore degli asset digitali come i bitcoin. Ma potrebbe vincere attraendo imprese in America? E qui Trump rassicura.
Ergo un’apertura dell’Europa è vantaggiosa per tutti, è un’occasione, creando condivisione, e cooperazione in ogni ambito commerciale. La sintesi, tuttavia, resta esplicitata non solo nel nuovo forum economico asiatico, ma anche nelle volontà europee.
Certamente questa visione lascia molto spazio ideologico, in una dimensione esterna, ma richiede anche molto pragmatismo di commercio e la situazione dell’export europeo e in particolare quello italiano di fronte ai dazi deve essere analizzato pragmaticamente sia nel breve che nel lungo periodo, poiché le conseguenze diseconomiche e le ripercussioni su alcuni settori non risparmieranno l’offerta italiana e non sarà sufficiente solo una semplice sfida,profittevole, come quella di ripiegare su un export verso nuovi mercati emergenti o una trattativa per un maggiore export.
Un valore significativo sono i miliardi di euro delle esportazioni italiane verso gli Usa, e fronteggiare i dazi trasferirà il costo dei dazi sui prezzi finali al consumatore con evidenti riduzioni dei margini, compensabili con un maggiore export e non solo per una riduzione alla domanda di consumo.Inoltre, l’elasticità di sostituzione di commercio, (cioè come i consumatori locali orientano la domanda in funzione della variazione dei prezzi comprando altre qualità di una stessa tipologia di prodotto), nel breve periodo flette in negativo, generando una diversificazione degli acquisti, mentre nel lungo periodo l’elasticità segue l’aggiustamento dei mercatinel tempo, la flessione e cambiamenti dello stesso.
Quindi i margini di incertezza aumentano nel lungo periodo a causa dell’ingresso di nuovi esportatori, produttori di prodotti similari, e l’elasticità di “sostituzione di commercio” varia divenendo molto alta, quindi, avremo una domanda di importazione americana inelastica nel breve periodo, con margini sempre meno ampi nel lungo periodo, generando notevoli incertezze.
In questo clima diseconomico le imprese italiane che esportano per lo più prodotti di nicchia differenziati, non riusciranno facilmente a sostituirli nel breve con ricadute di sostituzioni di commercio nel lungo periodo. In altre parole,nuove imprese sostituiranno l’offerta italiana, anche al variare delle aspettative e preferenze dei consumatori orientati a nuovi prodotti, con una contrazione notevole dell’export del Made in Italy, che subirà un calo di miliardi su base annua.Inoltre, con un deprezzamento anche dell’euro rispetto al dollaro la contrazione dell’export nel lungo periodo sarà devastante e amplificata generando uno scenario commerciale sperequativo per molti settori italiani.
L’Eurozona è a rischio e non solo l’Italia, ovviamente se decidiamo di non essere presenti sul mercato americano con i nostri prodotti, ma anche inversamente non sarà facile dare risposte sul caro vita, l’aumento dell’inflazione inevitabile,perché i dazi potrebbero fermare la ripresa e riportare la crescita intorno allo zero, con chiare complicazioni sull’euro e sulla banca centrale europea.
Tuttavia l’impatto durissimo del moderno protezionismo americano, accelera anche la crisi dell’impero americano sebbene avrà un evoluzione naturale e le previsioni catastrofiche allontanano da un successo operativo, ma rimpinguano i speculatori, e l’egemonia del dollaro sarà compromessa, e non sarà lontano il gran “giorno della liberazione” trumpiana, ma anche della liberazione europea, si deve reagire non solo con la sburocratizzazione e nuove riforme a sostegno della competitività, anche abbattendo le barriere ancora esistenti tra le nazioni Eu, creando nuove proiezioni e benessere nel mercato interno. L’espansione europea in termini commerciali passa attraverso la crociata commerciale americana, e sarà un’occasione di internazionalizzazione senza precedenti, di sviluppo conservativo e riformistico del mercato unico, sebbene privarsi di un’esclusiva sovranità commerciale in termini di delocalizzazione ci consentirà di essere presenti, comunque nella bufera dei dazi, conquistando quote di mercato inattese.
L’Europa deve applicare un Piano Marshall, al contrario, traendone il massimo beneficio economico, nei confronti degli Usa, mostrando la supremazia commerciale dell’eurozona.