
Fedele a se stesso fino al parossismo, il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha ignorato nuovamente un dogma della strategia, non solo militare: mai attaccare contemporaneamente su più fronti. E invece è proprio quello che sta facendo al punto che di alcune delle sue “offensive” non si parla o quasi. Distratti dal problema della Groenlandia e del Canada, dai rimpatri di immigrati irregolari e dai dazi doganali, dalle trattative con la Russia per l’Ucraina ma anche dai piani edilizi per Gaza, dagli spot pro Tesla fino alla Nato, agli organi di stampa europei – e nostrani in particolare – sembra sfuggito che in queste settimane Trump ha trovato anche il tempo per «dichiarare guerra alla Storia». La definizione è di alcuni – molti – commentatori Usa, scandalizzati per come la nuova amministrazione sta affrontando il problema del rapporto degli americani con la propria storia. Ovviamente, Trump si sta muovendo a modo suo, con la delicatezza e la prudenza che gli sono proprie. Tuttavia le cose sono un po’ più articolate di come le vedono i suoi oppositori anche se la questione c’è, è importante e merita di essere conosciuta. Anche perché, mutatis mutandis, certi temi non riguardano solo gli Stati Uniti.
Come ogni guerra che si rispetti, la «guerra di Trump alla Storia» è cominciata prima che arrivasse la dichiarazione di guerra ufficiale. Quest’ultima è stata annunciata solo il 27 marzo scorso, sotto forma dell’ormai classico “ordine esecutivo” che questa volta aveva per titolo: «President Donald J. Trump Restores Truth and Sanity to American History». (cioé «Il presidente Donald Trump ripristina la verità e la sanità mentale nella storia americana»). Meno di 700 parole comunque sufficienti a provocare un buon numero di attacchi di bile a chi ancora non si era indignato per quanto accaduto nelle settimane precedenti. Provando a mettere in fila i fatti il primo, vero attacco più che alla Storia in sé – infatti Trump dice di agire proprio per esaltare la storia degli Usa (Make America Great Again…) – è stato un ruvido stop ad un certo “orientamento” molto in voga negli anni scorsi. Il cazzotto è arrivato a inizio marzo e ha colpito il centro della potenza militare statunitense: il Pentagono. E’ stata l’Associated Press (AP) a dare per prima la notizia con un articolo più volte rivisto e aggiornato dal titolo: «Eroi di guerra ed eccellenze militari sono tra le 26 mila immagini selezionate per la rimozione nell’ambito dell’epurazione DEI al Pentagono». La notizia è che il Pentagono – come altre realtà della pubblica amministrazione Usa – ha ricevuto l’ordine di rimuovere rapidamente dai propri siti e account social immagini – quand’anche si riferiscano a soldati decorati – che possano violare le nuove linee di indirizzo volute dalla Casa Bianca e che si riassumono in quella strana sigla: “DEI”. In inglese e in italiano le iniziali delle tre parole cui si fa riferimento coincidono: «Diversità, Equità e Inclusione». Negli ultimi anni il combinato di questi tre concetti ha fornito il substrato ideologico alle politiche sociali e culturali delle amministrazioni democratiche a favore delle “minoranze”. Una sensibilità che non di rado ha portato a “sbandate” in chiave Woke e a forzature di vario genere in settori come la scuola, lo sport, lo spettacolo e la cultura. Per Trump la storia degli Stati Uniti non va vista come la sommatoria degli sforzi e delle azioni di varie minoranze ma va vista come un tutt’uno. Dividere meriti e colpe in base all’etnia, all’orientamento sessuale, al genere o al credo religioso è considerato ora un approccio divisivo che non rende giustizia ai “valori americani e occidentali”. Da qui, per tornare a quello che è accaduto al Pentagono, l’ordine del Segretario alla Difesa Pete Hegseth di eliminare immagini e pagine web che potessero in qualche modo rappresentare la storia militare statunitense per segmenti rigidi e separati. La riprova che non ci siano però istanze da “suprematisti bianchi” o altro (cosa invece tranquillamente strombazzata da un non memorabile articolo del Corriere della Sera in cui si parla della volontà di Trump di rimodellare la società per renderla «più bianca e più virile») è che, come riferisce sempre l’Associated Press, quando il sito dell’Usa Air Force, l’aeronautica militare, ha preso troppo alla lettera le disposizioni della Casa Bianca è stata costretta ad un rapido dietro front. Cosa è successo? Che erano state rimosse alcune foto dei membri della squadriglia dei Tuskegee Airmen, i primi piloti militari neri della nazione che hanno prestato servizio durante la Seconda guerra mondiale: «Ciò ha attirato l’ira della Casa Bianca per “l’eccesso di zelo” e l’Air Force ha rapidamente annullato la rimozione» ha scritto AP.
Un esempio che dimostra anche come, su certi temi, sia comunque difficile mantenere un equilibrio anche perché certe prese di posizione si prestano facilmente ad attacchi politici. Poiché Trump e i suoi non si sono preoccupati – esattamente come fanno i loro “corrispondenti”, veri e presunti, in Europa – di “preparare” adeguatamente la pubblica opinione prima di passare alle vie di fatto, il risultato è che gran parte della stampa Usa ha avuto facile gioco a classificare certe iniziative semplicemente come un attacco a donne, persone di colore, omosessuali, ispanici ecc. ecc. Non è così anche perché in tutte queste “categorie” ci sono ovviamente molti elettori trumpiani. La “filosofia” che anima la nuova amministrazione – piaccia o no, non spetta a noi dirlo – è stata riassunta dal portavoce del Pentagono Sean Parnell: «Penso che il presidente e il segretario siano stati molto chiari su questo, che chiunque dica nel Dipartimento della Difesa che la diversità è la nostra forza è, francamente, in errore. La nostra forza sono lo scopo comune e l’unità».
Un’idea di come vada letta – prima di farsi un giudizio, qualunque esso sia – l’operazione in corso può darla il caso del cimitero militare di Arlington, il luogo dove vengono sepolti gli eroi statunitensi (pure John Kennedy è sepolto lì). Anche qui, il sito web e il materiale didattico per le molte scolaresche che lo visitano, sono stati rivoluzionati ma, come ha scritto la direzione, non si è cancellato nulla ma si è semplicemente disposto il materiale secondo categorie diverse: «Tutti i profili di individui delle categorie elencate in precedenza “African American History”, “Hispanic American History” e “Women’s History” possono essere trovati in altre categorie, come “Prominent Military Figures”, “Politics and Government” o “Science, Technology and Engineering” (per citare alcuni esempi), in base ai contributi storici della persona alla nostra nazione». Questo per rispondere ai timori – molto pelosi e poco ingenui – di quanti immaginavano già che le tombe di eroine o eroi ispanici o neri venissero nascoste o altro… Questo non toglie che rimanga sul tappeto un discorso di metodo: quali categorie sono più idonee a rappresentare il passato? Quelle scelte dall’amministrazione Trump o le precedenti? Oppure quelle che magari c’erano 5-10 anni fa? Uno storico molto seguito e che ha una newsletter su Substack dedicata alla Guerra Civile americana – Kevin M. Levin – ha obbiettato che «Allo stato attuale, è molto più difficile trovare voci individuali per la storia afroamericana, la storia ispanoamericana e la storia delle donne. (…) Ciò che è andato perduto è un filo narrativo che collega gli individui a una storia più ampia su razza e genere, una narrazione che aiuta insegnanti, studenti e visitatori a comprendere meglio la mancanza di diversità, equità e inclusività che da tempo caratterizza il nostro esercito, pur evidenziandone i successi. Questa è la nostrastoria». Insomma, Levin e quelli come lui, rivendicano e rimpiangono quello che Trump vuole sostituire, anche lui in nome dell’inclusività, fedele al motto “Siamo tutti Americani al di là di ogni differenza”.
Si tratta di approcci antitetici, ognuno con difetti e pregi, di fronte ai quali non si può che scegliere. Quello che Levin, e altri con lui, non ammettono è che le scelte precedenti e a loro gradite possano essere considerate arbitrarie e limitative esattamente così come lui valuta arbitrarie e limitative le nuove linee di indirizzo stabilite dall’amministrazione di Trump. Il quale, non a caso, nel suo ordine esecutivo del 27 marzo scrive chiaramente che «nell’ultimo decennio, gli americani hanno assistito a uno sforzo concertato per riscrivere la storia americana e costringere la nostra nazione ad adottare un’ideologia infondata nei fatti, volta a sminuire i successi americani».
La controffensiva di Trump, con l’ordine esecutivo di fine marzo, ha messo però nel mirino soprattutto quella che è forse la maggiore istituzione culturale statunitense e sicuramente tra le maggiori del mondo: la Smithsonian Institution. Fondata nel 1846 con un lascito testamentario dello scienziato inglese James Smithson, la Smithsonian ha un patrimonio di oltre 157 milioni di oggetti distribuiti in 21 musei, 21 biblioteche, 14 centri di istruzione e ricerca, uno zoo e svariati monumenti storici e architettonici, per lo più situati a Washington, DC. Ulteriori strutture si trovano nel Maryland, nello stato di New York e in Virginia. Alla Smithsonian sono collegate oltre 200 istituzioni e musei in 47 stati. Con pochissime eccezioni, i musei della Smithsonian sono gratuiti e nel 2024 hanno accolto circa 30 milioni di visitatori. Ebbene, sotto il controllo democratico e la “dittatura Woke”, per Trump la Smithsonian sarebbe diventata la punta di diamante della “sovversione”: «Lo Smithsonian Institution – ha scritto – un tempo venerato in tutto il mondo come simbolo dell’eccellenza americana, ha recentemente promosso un’ideologia divisiva secondo cui i valori americani e occidentali sono dannosi». Da qui – grazie anche al fatto che l’istituzione culturale riceve finanziamenti pubblici e che per statuto il vicepresidente Usa siede nel Consiglio d’amministrazione – l’ordine di «eliminare qualsiasi ideologia impropria, divisiva o antiamericana dallo Smithsonian e dai suoi musei, centri di istruzione e ricerca e dallo Zoo nazionale». Non basta, Trump ha anche disposto che la sua amministrazione e il Congresso vigilino affinché «i futuri stanziamenti dello Smithsonian vietino il finanziamento di mostre o programmi che degradano i valori americani condivisi, dividono gli americani in base alla razza o promuovono ideologie incompatibili con la legge federale».
Non basta. Trump, in piena modalità “Stranamore”, ha voluto occuparsi anche di un altro fronte delicatissimo della storia americana: la Guerra di Secessione (1861-1865) combattuta tra “nordisti” e “sudisti” o, più correttamente, tra “unionisti” e “confederati”. Come è noto, dopo la morte di George Floyd il 25 maggio 2020 si è scatenata, insieme all’esplodere del movimento Black Lives Matter, una vera e propria campagna iconoclasta che ha portato all’abbattimento di centinaia di statue, monumenti e lapidi di soldati confederati. Un censimento non esaustivo ma comunque indicativo lo si può trovare in questo sito: Confederate Monument Removals. Gli anni più intensi sono stati la seconda metà del 2020 e il 2021 cui è seguito un rapido declino della furia demolitrice (anche per assenza di ulteriori obbiettivi…) in tempi più recenti: due abbattimenti nel 2023 e uno solo nel 2024. Tuttavia, anche su questo Trump intende inserire la retromarcia poiché nel suo ordine esecutivo ha esplicitamente scritto: «L’ordinanza ordina inoltre al Segretario degli Interni di ripristinare parchi federali, monumenti, memoriali, statue, lapidi o proprietà simili che siano stati impropriamente rimossi o modificati negli ultimi cinque anni per perpetuare una falsa revisione della storia o per minimizzare o denigrare in modo improprio determinate figure o eventi storici».
Si tratta di affermazioni più di principio che pratiche e Trump i suoi lo sanno: è un avvertimento, un modo per dire che d’ora in avanti certe derive non saranno più tollerate e men che meno, come è stato per l’era Biden, tutto sommato guardate con benevolenza. Ma anche negli Usa ci sono i “Gendarmi della (loro) memoria” che non vedono l’ora di poter gridare al pericolo autoritario. Persino il (una volta) compassato “The Times” britannico è andato completamente fuori misura quando ha annunciato che «l’ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti chiede anche il ripristino di quasi 100 monumenti confederati rimossi dal 2020». In realtà non è così, per due motivi: uno di forma e uno di sostanza. Da un punto di vista formale Trump non ha fatto nessun accenno esplicito alla Guerra civile o ai monumenti confederati anche se non è difficile immaginare che quelle frasi riguardassero proprio questo aspetto della storia statunitense. Da un punto di vista sostanziale invece, come ha osservato ancora Levin (che è fieramente e animosamente anti trumpiano), «Innanzitutto, a parte il monumento confederato nel Cimitero nazionale di Arlington, rimosso nel dicembre 2023, e una statua in onore di Albert Pike, situata in Judiciary Square nel centro di Washington, DC, il resto dei monumenti confederati rimossi negli ultimi anni si trovavano su proprietà statali/locali. Il Dipartimento degli Interni non ha alcuna autorità su come le comunità locali gestiscono i loro spazi pubblici. Non c’è motivo di credere che Trump abbia alcuna autorità per ordinare alle comunità locali di restituire i monumenti che sono stati rimossi dalla proprietà pubblica». Difficile che Trump o qualcuno dei suoi consiglieri non sappia queste cose. Ma, evidentemente, le ha volute dire lo stesso proprio per affermare un principio, nella consapevolezza che la guerra non sarà né breve né facile. E che quindi è meglio avere sempre l’iniziativa.
Nei prossimi tre anni e mezzo ne vedremo delle belle anche su questo fronte perché poche cose possono essere divisive più della Storia. Come ha sottolineato anche Trump nel suo ordine esecutivo, il prossimo 4 luglio 2026 gli Stati Uniti festeggeranno il 250mo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza: un anniversario che sarà anche l’occasione di un primo bilancio della guerra iniziata in queste settimane. Una guerra che, facile previsione, temo non potrà concludersi con una pace equa.
Fonte: “E’ la Storia bellezza”, la newsletter settimanale di storia e attualità di Fabio Andriola.