
Dell’Europa “a pezzi”, dopo il summit di Parigi, si è detto e scritto moltissimo negli ultimi giorni. Italia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Polonia e Olanda – alla presenza dei vertici Ue e della Nato – si sono trovati solo sui principi generali, ovvero sulla necessità di condividere le scelte con gli Stati Uniti, l’esigenza di garantire una pace giusta e di proteggere l’Ucraina.
Le premesse per un fallimento c’erano tutte: a partire dalle modalità dell’incontro (convocato dal Presidente francese Macron), dal luogo (l’Eliseo), dal numero degli invitati (in formato ridotto rispetto ai ventisette Stati membri dell’Unione). Non è un caso che oltre gli auspici non si sia andati: ribadendo la necessità che un eventuale accordo di pace rispetti l’integrità l’indipendenza e la sicurezza dell’Ucraina, ponendo il tema di un maggiore impegno per una difesa comune europea, facendo però emergere le divergenze esistenti in particolare sul possibile impiego di contingenti europei con funzioni di garanzia nel rispetto dei possibili accordi di pace.
L’Europa pare essere al traino degli eventi: senza una strategia condivisa, senza la forza per affermare un proprio ruolo, senza opzioni rispetto ai mutati contesti globali, segnati dal ritorno di Donald Trump e dai “niet” russi che non riconoscono un ruolo europeo al tavolo delle trattative.
Ben oltre i temi sul tappeto, legati al conflitto in corso tra Russia ed Ucraina, la questione di fondo è che l’Europa oggi manifesta una crisi “strutturale” complessa, che tocca la sua stessa ragione d’essere e che rischia di minare, alla base, la stessa tenuta dell’Unione.
Come ha denunciato l’ultimo “Rapporto sulla Dottrina Sociale nel Mondo”, edito, nell’ottobre scorso, da Cantagalli, per conto dell’ Osservatorio Van Thuân, siamo alla “Finis Europae” ?
Gli elementi ci sono tutti.: Europa – secondo il Rapporto – non significa Unione Europea, anche se “è proprio l’Unione a privare l’Europa del suo popolo, privandola dei popoli”. L’accusa è che “nell’Unione Europea è in atto un sistematico progetto di pedagogia delle masse che utilizza la lunga esperienza americana in questo settore e che si avvale delle nuove tecnologie. I popoli europei sono controllati, sorvegliati e la loro vita è indirizzata dall’alto”.
Lo scenario è grave. Il modello socialdemocratico è definito “in fase terminale” nei Paesi Scandinavi, in Germania “le politiche green e l’accentuato immigrazionismo” hanno “indebolito la locomotiva d’Europa”, l’Olanda è all’avanguardia nella legislazione pro-aborto, eutanasia e maternità surrogata, la Polonia è descritta come “ostaggio di un governo liberal aiutato a tornare al potere dalla Commissione dell’Unione Europea, inteso a distruggere il cattolicesimo della nazione polacca e a imporre, anche con la violenza, il disprezzo della legge e il controllo dell’informazione, una transizione velocissima verso il relativismo e il laicismo”.
E poi, la rivoluzione socialista in Spagna che ne fa “un Paese pienamente allineato agli stili di vita di un occidente morente” e la Francia che vive “una decomposizione etica e sociale”, con l’aborto tra le libertà costituzionali e “le stesse Olimpiadi usate come propaganda woke”.
Se questo è ciò che offre l’Europa odierna non è una grande scoperta la sua cronica debolezza e lasua incapacità a farsi soggetto attivo sugli scenari internazionali, punta d’iceberg di una visione burocratica, parcellizzata nei suoi parametri economici, divisa dai suoi piccoli egoismi, “relativizzata”. Non stupiamoci perciò più di tanto della sua crisi. Crisi complessa, di valori, di classi dirigenti, di “aspettative”. E quindi di ruoli rispetto ai mutati contesti mondiali. Ma cerchiamo almeno di porci qualche domanda di fondo.
Assecondare il processo di dissoluzione può essere una via d’uscita ? Non lo crediamo. E non solo rispetto a qualche richiamo valoriale. I conti debbono essere fatti a partire dai contesti in cui ci si trova ad operare. Dai numeri che rimarcano il quadro globalizzato e la necessità di misurarsi ad armi pari sui grandi scenari internazionali. Le “piccole Patrie” sono in condizione di affrontare e possibilmente vincere questa sfida ? Difficile crederci. Ci vuole allora ben altro per affrontare realisticamente le sfide in atto e quelle che verranno.
Cerchiamo almeno di esserne coscienti, a livello culturale ancora prima che politico e sociale, iniziando ad alzare l’asticella, a guardare oltre gli orizzonti burocratici e scontati dell’Europa attuale. A prendere innanzitutto coscienza di una Storia, di identità condivise, delle sfide in corso. Di quelle che verranno. Richiamando ciascuno alle proprie responsabilità. E magari ripartendo anche (ma certamente non solo, visto l’incedere degli avvenimenti) dai “fondamentali” e dalle ragioni profonde del nostro essere Unone.
“Perché una Nazione esista – scriveva Jose Ortega – è sufficiente che essa abbia coscienza del suo esistere”. Un’Europa, cosciente del proprio ruolo, avrebbe potuto essere all’altezza delle nuove sfide, se avesse pensato meno o non solo a farsi strumento burocratico, orizzonte codificato entro cui morire d’inedia, coltivando i piccoli egoismi nazionali e si fosse misurata sulle ragioni di fondo del proprio esistere, sul proprio ruolo geopolitico, sulla sua capacità di dare forma spirituale ai tre e più millenni del suo essere. Da lì – in fondo – può ancora discendere una nostra assunzione di responsabilità e la possibilità di “esserci”. Ritrovando quel senso di appartenenza e quella volontà che paiono assopiti. Chiamateci degli illusi. Ma noi a questa Europa – malgrado tutto – ancora crediamo. La strada è lunga, ma la sfida affascinante. Importante è discuterne. Soprattutto crederci, sconfiggendo ogni deleterio fatalismo, magari proponendo realistiche vie d’uscita, se vi sono. Certo è che così non si può andare avanti.