Marc Augé. L’antropologo che sottolineò i fenomeni di una filosofia dell’essere, che rese i non luoghi spazio nel vuoto delle identità e della tradizione.
L’antropologia come eredità proiettata in un futuro che abbia la consapevolezza del tempo tra una civiltà e un passato, tra una società e la proiezione di essa, tra il mondo dei simboli e l’eterno contatto con l’oltre storia. Marc Augé, nato a il 2 settembre del 1935 a Poitiers, Francia e morto il 24 luglio del 2023.
Un antropologo che ha intrecciato il sapere dei popoli con la saggezza del pensiero. Un filosofo che ha inciso nel linguaggio delle parole con l’affermazione di una identità che incide nella coscienza di uno spazio tempo che si afferma nel luogo del tempo e nello spazio dei luoghi.
L’antropologo è nel filosofo e il filosofo supera il dato scientifico della storia. Infatti Marc Augé contrappone alla storia i due dati fondamentali della visione comparata: lo spazio e il tempo.
Il suo “non luogo” è una dimensione che per essere compreso nella sua profondità deve raccordarsi non solo con un sistema di valori, ma con l’essere. L’uomo è una interrogazione di valori, ma è soprattutto una dissolvenza del sistema di tale interrogazione in una interazione di senso. I suoi libri sono un viaggio compiuto tra le culture africane e quelle occidentali. È in questa finestra aperta sui saperi e sulle consolidate matrici delle tradizioni che si sviluppa un orizzonte abitativo oltre ogni se.
Dirà: “Nella vita moderna i miti nascono quando i riti muoiono e perdono la loro potenza creatrice”. L’incontro scontro si consuma tra la memoria e il contemporaneo in una stagione delle vite in cui le civiltà hanno la necessità di incontrare le appartenenze dentro una geografia di identità. Antropologo delle civiltà nell’uomo ha innescato il significante del presente nel futuro: “Essere contemporanei significa porre l’accento su quanto, nel presente, delinea qualcosa del futuro”. Delineare qualcosa di futuro è leggere con lungimiranza la misure delle “cose” sul piano propriamente fenomenologico. Ed è qui che all’antropologo si lega il filosofo.
Tra i suoi libri vorrei ricordare a cominciare dal 1977 con “Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort”, 1982 “Génie du paganisme”, “Genio del paganesimo”, Bollati Boringhieri, 2002, 1985 “La traversée du Luxembourg”, 1992 “Non-lieux, Seuil”, Paris, 1992, “Nonluoghi”, 1992 “Un etnologo nel metro”, 1994 “Ville e tenute”, 1997, “L’impossible voyage, Le tourisme et ses images”, “Disneyland e altri nonluoghi”, Bollati Boringhieri, 1999, 1998 “La guerra dei sogni”, 2000 “Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia”, Bollati Boringhieri, 2001 “Che cosa succede?”, Bollati Boringhieri, “Che fine ha fatto il futuro?” 2014, 2014
“Il tempo senza età”, 2019 “Paesaggi”, 2020 “Piccole felicità”.
Un percorso non indifferente. Il cui centro è definito dalla sua costante attenzione del tempo, che è diventata una vera e propria attrazione. Nel fondo dei suoi studi, soprattutto negli ultimi decenni, si è innervato il tema della globalizzazione sulla quale si soffermerà sostenendo con una suo inciso: “Nel concetto di globalizzazione, e in coloro che si richiamano ad esso, c’è un’idea di compiutezza del mondo e di arresto del tempo che denota un’assenza di immaginazione e un invischiamento nel presente profondamente contrari allo spirito scientifico e alla morale politica”.
In un tale contesto si è radicata la problematica del mito. Ovvero dei simboli e delle manifestazioni ad essi connessi: “Gli dei sono al centro dell’universo simbolico inteso come l’insieme di rappresentazione dei sistemi dell’attività umana: si può passare dall’uno all’altro di questi sistemi, e da una pratica all’altra, solo grazie alla loro mediazione”.
Marc Augé ha attraversato gli archetipi dei miti ponendo come le facce di una stessa medaglia l’antropologia e l’archeologia in un apparato etnico, o meglio etnologico. Dunque. L’antropologia non come mestiere ma come la vera saggezza dei saperi. Gli antichi saperi in una base di meditazioni rappresentative. Le eredità così hanno trovato il luogo proprio nel non luogo dello spazio-tempo nel quale gli uomini hanno costruito lasciando la caverna la loro capanna. L’antropologo che portò l’etnologia nella filosofia.