“Se ne ammazzate due, trenta le rimpiazzeranno”. Il grido si estende in tutte le contrade dell’Iran. È più forte dell’ ostinazione dei criminali ayatollah che stanno mettendo il Paese a ferro e fuoco. È più feroce della polizia religiosa che cerca donne come cani rognosi da sbranare nel mattatoio di Evin. È più spaventoso alle orecchie del regime dell’arroganza gangsteristica dei pasdaran. Fa paura agli imam, fa tremare la nomenclatura più ignobile del mondo perché nel nome di un Dio snaturato e strumentalizzato (il più blasfemo degli atteggiamenti da parte di religiosi barbuti che si dedicano allo sterminio sistematico).
Per ogni giovane donna che subisce l’affronto del carcere, della tortura, del dileggio ce ne sono legioni disposte a sfidare la morte per gridare allo scandalo di una sanguinosa guerra senza senso, innescata dalla morte di una ragazza, Mahsa Amini (nella foto) di 22 anni, brutalmente prelevata dai “guardiani della moralità” e finita in galera il 16 ottobre scorso. Pochi giorni dopo ne è uscita morta. Ammazzata. Segnata dalla tortura. Probabilmente stuprata. Il suo orrendo delitto? Mostrava una ciocca di capelli sotto il chador. In Iran il velo non è segno di pietà, o non solo quello è il significato. È una dichiarazione politica, dal momento che l’Ayatollah Khomeini ne fece il simbolo della sua rivoluzione. Questo pezzo di tessuto antioccidentale e anticapitalista, lo rivendicano allora anche le donne più emancipate. Come Zorah Kazemi, moglie del riformatore Mir Hossein Moussavi, primo ministro dal 1981 al 1989: la “Giovanna d’Arco” della rivoluzione iraniana, borghese, figlia di un colonnello, scrisse anni fa uno sfogo di protesta che circolava sotto il mantello ed il velo: “ L’hijab allora significava abbattere lo scià, così come rimuoverlo ora significa abbattere la Repubblica islamica”
Dalla morte della giovane e, in particolare, durante il suo funerale a Saqqez, nel Kurdistan iraniano, le donne si sono tolte i veli e li hanno volteggiati in aria in suo omaggio, e questo svelamento sacrilego si è ripetuto in tutti gli eventi. Crimine contro la Repubblica islamica: probabilmente non c’è gesto più forte per esprimere la detestazione nei confronti del regime. E migliaia da quel tragico giorno sono stati assassinati, arrestati, torturati, perseguitati. Ma la rivolta non si è placata di fronte alla mattanza che il regime dei barbuti islamisti ha messo in atto incurante delle proteste , vane a dire la verità, di tutto il mondo.
Le fiamme incendiano l’Iran, e non sono paragonabili dall’occidentalissimo ed equivoco MeToo , il movimento delle femministe vip, caricatura di ben altre tragedie che coinvolgono le donne in tutto il mondo.
Il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha commentato le rivolte in un suo recente messaggio al popolo iraniano: “L’Iran non fa parte dell’Occidente sviluppato, quindi Zan, Zendegi, Azadi (Donna, Vita, Libertà) è molto diverso dal #MeToo nei paesi occidentali: mobilizza milioni di donne comuni, ed è direttamente collegato alla lotta di tutti, uomini compresi[…]. Gli uomini che partecipano a Zan, Zendegi, Azadi sanno bene che la lotta per i diritti delle donne è anche la lotta per la propria libertà: l’oppressione delle donne non è un caso speciale, è il momento in cui l’oppressione che permea l’intera società è più visibile[…]”.
È una rivolta totale che, tuttavia, va attribuita alla volontà delle giovani donne di Teheran, di Isfahan, di Shiraz, di Qom, e di tutte le città sante come dei villaggi che popolano l’Iran: sono state loro a dare il volto ad un malessere insopportabile, nel Paese in cui i diritti vengono calpestati quotidianamente giorno e notte. E soprattutto hanno fatto capire al mondo intero che la paura della morte non è più un deterrente per il regime dei barbuti assassini.
Che siano le donne non sorprende chi conosce l’Iran. Sono coriacee, orgogliose, amanti della libertà. Ho visto ragazze nel cuore di Teheran ballare sui ritmi occidentali sventolando il chador nei bar affollati di giovani, attenti agli aguzzini che sanno dove aggirarsi per beccare le loro vittime. Ad una chiesi se non avesse paura: mi rispose, sorridente, che al massimo l’avrebbero incarcerata nel maniero terrificante di Evin dove probabilmente sarebbe stata uccisa, ma un sorriso valeva la vita piuttosto che adattarsi al grigiore imposto dagli ayatollah, ed era il tempo di Ahmadinejad…
Ora Alì Kamenei, la guida spirituale che attende di morire godendo del cumulo di vittime che si ammassano nelle strade e nelle carceri, pensa addirittura ad una pacificazione: ma quale? Non ha capito, come ha scritto il sito libanese, Jadaliyya, che le giovani donne si sono “liberate dal pensiero della morte” lasciandosela alle spalle “nell’ intimità dell’incontro con le nostre paure, superandole nel calore del corpo”.
È una filosofia di vita che dalla terra iraniana, gonfia di profumi e di bellezze, sfregiata dal sangue di centinaia di ragazze e di tanti anonimi uomini, ci investe e ci richiama ad una mobilitazione spirituale e culturale consapevoli che queste donne che sfidano il regime potranno farlo cadere perché si sono liberate finalmente – dopo quarantatré anni di oppressione, in particolare quelle nate dopo la rivoluzione – dalla prigionia del corpo e dalla sua storica sottomissione e, come dice qualcuna, il corpo lo scopre solo ora, a fronte dell’ennesimo eccidio, con esso la bellezza della sua resistenza, “una nuova maturità”, come ha scritto sotto lo pseudonimo di una lettera la blogger citata in precedenza e ripresa dal settimanale italiano “Internazionale”.
Dopo l’assassinio di Mahsa Amini e delle sue coetanee, l’Iran sa che ha trovato i suoi giovani eroi, quelli che spazzeranno via gli eredi di Khomeini. E la nazione potrà forse risorgere perché un capo che ammainerà la bandiera della Repubblica islamica lo troveranno, forse sarà addirittura una donna, una di quelle che ha vinto la paura della morte. A Teheran si sogna che il tetro carcere di Evin venga abbattuto ed al suo posto nascano fiori profumati tra i quali le ragazze che verranno potranno sventolare i loro veli colorati come bandiere di libertà e d’amore