A volte scrivendo di qualcuno sembra di riscrivere, almeno in parte, la storia di un altro, soprattutto la parte peggiore. Una sorta di vita parallela che accomuna personaggi che spesso hanno lo stesso luogo d’origine seppure non abbiano vissuto negli stessi anni. Il calcio ha molte di queste storie comuni; raccontando José Leandro Andrade per molti versi sembra di rileggere la vita di Garrincha, Corbatta, Socrates e da ultimo Maradona, solo per restare in ambito Sudamericano.
C’è una sua foto della metà degli anni venti dove appare in un elegante vestito doppiopetto, camicia bianca di seta e papillon. Con i suoi tratti somatici e per il colore scuro della pelle (sua madre era uruguagia, il papà era afro-brasiliano) poteva tranquillamente sembrare un musicista di Jazz nella New Orleans di quegli anni; d’altronde la musica e il ballo erano una sua passione. Quando lo videro giocare a calcio i francesi lo soprannominarono la Merveille noire; per tutti gli altridivenne la Maravilla negra. Quella foto però non apparteneva al suo mondo. Aveva conosciuto la povertà scalza dell’infanzia nel natio Barrio Salto distante quasi cinquecento chilometri da Montevideo, una povertà che in quell’epoca e contesto rappresentava quasi la normalità. Fu ubriacato e non solo metaforicamente dalla fama e dalla ricchezza che nella seconda metà degli anni venti lo fecero protagonista nelle folli notti di Parigi. Ritrovò l’estrema povertà alla fine dei suoi giorni, una povertà peggiore di quella in cui era nato, come è accaduto a tanti altri nomi celebri che proprio alla celebrità non seppero tenere testa finendo per esserne sconfitti.
Josè Leandro Andrade (Barrio Salto, 20 novembre 1901) è stato uno dei più grandi giocatori nella storia del Calcio; occupa il 29° posto nella classifica dei migliori calciatori del XX secolo stilata dall’IFFHS. Con la maglia della Celeste, la Nazionale dell’Uruguay, vinse tutto: le Olimpiadi del 1924 e del 1928, il primo Campionato del Mondo giocato nel 1930 in casa sua dove fu anche il miglior giocatore del Torneo, Il Campeonato Sudamericano de Football (dal 1975 denominato Coppa America) nel 1923, 1924 e 1926. Con il suo club, il Peñarol di Montevideo, vinse tre campionati uruguaiani.
Giocava indifferentemente da mediano o da mezzala destra, dotato com’era di un’ottima tecnica individuale e una nitida visione di gioco a cui abbinava la velocità e l’agilità nonostante fosse alto un metro e ottanta, un’altezza rimarchevole a quei tempi. Iniziò a giocare nel Bella Vista, squadra dove militava José Nasazzi, lo storico capitano dell’Uruguay con cui vinse tutti i titoli dal 1923 al 1930. Giocò nel Nacional e nel Peñarol, trasferendosi poi in Argentina per vestire le maglie di River Plate, Atlético Atlanta e Talleres. Con i club segnò 107 gol, ma in nessun Torneo vinto con la Nazionale riuscì a segnare; d’altronde era un centrocampista vecchia maniera.
La svolta della sua vita avvenne con la vittoria in Coppa America del 1924 che obbligò la Federazione dell’Uruguay a partecipare alle Olimpiadi dello stesso anno a Parigi; era stato quello l’accordo preso tra calciatori e presidenza in caso di vittoria della Coppa. Com’era diverso il Calcio di quell’epoca: per poter sostenere i costi della spedizione il Presidente della Federazione, Atilio Narancio, ipotecò una propria casa e il resto lo raccolse con l’incasso di nove partite amichevoli organizzate per la Nazionale! E così la Celeste viaggio in nave da Montevideo fino in Spagna e da lì in treno fino in terra transalpina. Il Torneo Olimpico gli uruguagi lo dominarono vincendo le quattro partite con 17 reti all’attivo e 2 sole subite, battendo per 3 a 0 la Svizzera in una finale dall’esito già scritto. Andrade finì sotto la luce dei riflettori, non solo per le sue indiscusse qualità di calciatore, ma soprattutto perché i francesi non avevano mai visto giocare un nero a calcio. Andrade restò incantato dalla sfolgorante Parigi così enormemente differente dai posti in cui aveva fino a quel momento vissuto; fu la svolta della sua vita, seppure ne pagò care le conseguenze. Parigi degli anni ’20. Il Cafè de la Paix dove potevi incontrare Matisse, Mondrian, Picasso, Braque, Modigliani, Chagall, Duchamp, de Chirico, Magritte, Mirò, Hemingway, Scott Fitzgerald, Pound, Faulkner, Breton, gilde, Apollinaire Beckett e tanti altri protagonisti della vita culturale dell’epoca; Montmartre con i suoi bohemiens, l’Avenue des Champs Élysées con i suoi locali, Le Folies Bergère dove si esibivano i migliori artisti dell’epoca tra cui la donna che stregò Andrade, quella Josèphine Baker che era diventata la regina delle notti parigine. Andrade incominciò a non poter fare più a meno dei vestiti tagliati su misura, delle camicie di seta e delle scarpe di vernice luccicante; soprattutto non poté resistere alla vita notturna e allo Champagne. Questo stile di vita oramai lo aveva contagiato e anche al ritorno in patria non poté distaccarsene creandogli diversi problemi soprattutto per la dipendenza dall’alcool. Un altro episodio che segnò la sua vita accadde alle vittoriose Olimpiadi del 1928 ad Amsterdam; nella partita contro l’Italia finì fortuitamente con la testa contro un palo e si feri ad un occhio al quale nel corso degli anni perse la vista.
Seppure al tramonto della carriera partecipò da protagonista alla vittoria del primo Campionato del Mondo, quello del 1930 disputato proprio in Uruguay; fu eletto miglior giocatore del Torneo. Considerata anche l’epoca fu un campionato piuttosto “artigianale”, con sole quattro squadre europee che decisero di affrontare i costi e i disagi del lungo viaggio in mare. A quel tempo non c’erano ancora molte delle regole attuali: le maglie non avevano la numerazione, ogni nazionale aveva il suo pallone con un peso diverso e l’allenatore della Bolivia, Ulises Saucedo, arbitrò una partita di girone e fece da guardialinee nella finale vinta dall’Uruguay sull’Argentina per 4 a 2!
L’anno dopo quel trionfo Andrade passò al Peñarol e nel 1935 concluse la sua carriera. Ritornò qualche volta in Francia nel tentativo di rinverdire i suoi fasti degli anni ’20, ma la salute e soprattutto il danaro non erano più quelli di un tempo. La miseria sopraggiunse inevitabile e con essa i mali provocati dall’alcolismo a cui si aggiunse la semi cecità e la tubercolosi. Ebbe però modo di esserci, stavolta da spettatore al Maracanà di Rio, alla storica vittoria sul Brasile nella finale del Campionato del Mondo del 1950. Quel giorno c’era in campo nel ruolo di mediano suo nipote Victor Rodriguez che in segno di omaggio aggiunse al proprio il cognome dello zio; dopo esattamente vent’anni un altro Andrade diventava Campione del Mondo con l’Uruguay.
Visse gli ultimi tempi in uno squallido tugurio, assistito da una parente. Morì il 5 ottobre 1957, steso su un lettino dell’ospizio di Pineyro del Campo con dei cenci addosso; vicino a lui c’era una logora e sudicia scatola di cartone, quella in cui si tengono le scarpe. Dentro c’era tutto ciò che gli era rimasto, le medaglie vinte in carriera; luccicavano ancora, la sua vita invece si era spenta già da tempo.