
Ci sono stati calciatori che per una serie di fortunate coincidenze hanno vinto in carriera molto più di quanto potessero aspettarsi, così come ci sono stati calciatori dotati di uno straordinario talento che per circostanze avverse hanno vinto molto meno di quanto avrebbero meritato. A volte non basta essere grandi per vincere qualcosa, ma di certo non si diventa grandi solo perché si è vinto. Oggi raccontiamo un grande del calcio mondiale che in carriera ha vinto poco pur essendo uno di quei rari talenti che rendono questo gioco un’arte; non a caso Gianni Agnelli lo soprannominò Raffaello per la maestria e l’eleganza raffinata con cui giocava.
Roberto Baggio (Caldogno 18/2/1967) occupa la 16ª posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dalla rivista World Soccer nel 1999. Pelé lo ha inserito nella FIFA 100, la lista dei migliori calciatori viventi redatta nel 2004 in occasione del Centenario della FIFA. Ha vinto il Pallone d’Oro e il FIFA World Player nel 1993 nonché l’edizione inaugurale del Golden Foot nel 2003. E’ inserito nella Hall of Fame del calcio italiano e nella Walk of Fame dello sport. In carriera ha vinto due scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia. Pur non avendo mai vinto la classifica dei marcatori, è il settimo realizzatore del campionato di Serie A con 205 gol; con nove reti realizzate è con Paolo Rossi e Christian Vieri il miglior marcatore italiano nel Campionato del Mondo ed è l’unico ad avere segnato in tre diverse edizioni del torneo. Ebbe enorme popolarità sia in Italia che all’estero e fu protagonista di diversi spot pubblicitari a livello internazionale. Gli furono dedicate poesie, canzoni e opere teatrali; parte della sua vita è stata raccontata nel film Il Divin Codino. A lui si sono ispirati fumetti e cartoni animati; è stato riprodotto nelle celebri serie giapponesi “Holly e Benji” e “Sailor Moon”.
Cresciuto calcisticamente nel L.R. Vicenza, mostrò appieno il suo talento con la Fiorentina con cui raggiunse la finale di Coppa UEFA nell’edizione 1989-1990. La notorietà internazionale gli venne con la successiva esperienza nella Juventus con cui vinse una Coppa UEFA nel 1992-1993 e il double Scudetto/Coppa Italia nella stagione 1994-1995. Passò al Milan nella stagione successiva vincendo così il secondo scudetto consecutivo. Negli ultimi anni giocò con Bologna e Inter per poi concludere la carriera vestendo dal 2000 al 2004 la maglia del Brescia. Se in campo poteva sembrare un’anticonformista con l’inconfondibile codino e l’orecchino, fuori dal calcio aveva un carattere mite e introverso che lo portò ad abbracciare la fede Buddista ed impegnarsi nel sociale e in operazioni umanitarie. Nominato Ambasciatore della FAO, gli venne assegnato il Peace Summit Award 2010, un riconoscimento assegnato annualmente da una commissione composta dai Premi Nobel per la pace alla personalità più impegnata verso i più bisognosi, per «il suo impegno forte e costante alla pace nel mondo e le relative attività internazionali».
In campo era in grado di rivestire più ruoli: prima punta, centravanti di manovra e trequartista. Lo stile di gioco per il quale sembrava danzare sul pallone come una farfalla e la tecnica raffinata che lo hanno collocato nell’olimpo del calcio mondiale gli consentivano non solo di concludere con precisione a rete, ma anche di impostare la manovra e di fornire assist ai compagni con giocate geniali al limite del visionario; tra l’altro calciava indifferentemente con entrambi i piedi la qual cosa lo agevolò sui calci piazzati di cui fu uno specialista.
Ma se il fuoriclasse non si discuteva, il suo carattere per nulla propenso al compromesso e la scarsa disponibilità ad integrarsi in quegli schemi rigidi che stavano iniziando a divenire un dogma nel calcio ne limitarono di fatto la carriera. Ebbe continui dissapori con gli allenatori, soprattutto con Lippi, Sacchi, Capello e Ulivieri, un atteggiamento questo che lo costrinse a diversi cambi di squadra e alla diffidenza nei suoi confronti da parte dei grandi club europei che pure avrebbero fatto follie per averlo. Con il rispetto dovuto ai maestri della panchina, pensare di costringere Roberto Baggio a sottostare ai rigidi schemi muovendosi con specifici movimenti al pari degli altri sarebbe stato come far cantare Pavarotti nel coro della parrocchia; ma tant’è, il calcio è bello anche perché è opinabile. L’unico allenatore con cui ebbe un legame profondo di stima e affetto fu Carlo Mazzone con cui condivise gli anni al Brescia; quando firmò il contratto con le “rondinelle” Baggio fece inserire una clausola che gli consentiva di rescinderlo nel caso Mazzone avesse lasciato la panchina.Carlo Mazzone, “Sor Carletto” com’era chiamato, un indiscusso maestro di calcio, soprattutto sotto il profilo umano una persona davvero speciale.
Con la Nazionale Roberto Baggio segnò 27 reti (quarto marcatore di sempre) e giocato tre Mondialilegati da un filo conduttore: quello del ’90 con l’Italia eliminata ai rigori in semifinale dall’Argentina; quello del ’94 con la finale persa dall’Italia ai rigori contro il Brasile e quella del ’98 con l’Italia eliminata ai quarti dalla Francia e sempre dopo i calci di rigore.
Ed è proprio un calcio di rigore, quello sbagliato nella finale del ’94, che lasciò dentro di lui un segno indelebile. Il 17 luglio 1994 a Pasadena (California) Italia e Brasile giocarono la finale del Mondiale. Nel ’70 in Messico il Brasile ci aveva battuti in finale per 4 a 1 ma quella brasiliana era una squadra di altra categoria. Nell’82 l’Italia eliminò il Brasile ai quarti e anche in quell’occasione i verdeoro schieravano dei fuoriclasse, ma quel giorno iniziò il mondiale di Paolo Rossi con tre gol che diedero ragione a Enzo Bearzot, il friulano dalla testa dura come quella di un mulo che aveva continuato a schierarlo contro il volere di un’intera nazione che per quattro partite non aveva visto un solo gol del suo centravanti. Perciò sotto il sole rovente della California (per motivi televisivi si giocò alle 12,30 locali!) quella tra Italia e Brasile divenne una specie di regolamento dei conti. Dopo 120 minuti a reti inviolate la partita si decise ai rigori e per l’Italia iniziò subito male con l’errore dal dischetto di Franco Baresi, seguito dalle reti di Albertini e Evani e dall’errore di Massaro; i brasiliani avevano realizzato i primi quattro tiri con Santos, Romario, Branco e Dunga. Il quinto rigore era perciò decisivo per l’Italia perché segnarlo avrebbe poi rimesso tutto nella mani di Gianluca Pagliuca per cercare di parare l’ultimo rigore dei verdeoro e così proseguire la serie. Come stabilito, sul dischetto si portò Roberto Baggio, uno che i rigori li segnava mandando il pallone da un lato e il portiere dall’altro. Sistemò con cura il pallone sul dischetto e prese la rincorsa partendo un metro fuori dall’area; la telecamera inquadrò il suo viso segnato da un’eccessiva tensione. Al fischio dell’arbitro Puhl si mosse con passi cadenzati e calciò centrale: il pallone finìincredibilmente alto sulla traversa mentre Taffarel si stava lanciando basso alla sua sinistra. Probabilmente Baggio non sentì nemmeno il triplice fischio dell’arbitro ungherese che sanciva il quarto titolo mondiale dei brasiliani; restò come impietrito sul dischetto del rigore, incapace di muoversi e con lo sguardo perso nel vuoto.
Qualcuno scrisse che in quel momento Baggio fu l’uomo che morì in piedi e non andò molto lontano dalla realtà. Nella sua malinconica e nostalgica “La leva calcistica della classe ‘68” Francesco De Gregori ha scritto che “Non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. Difatti nessuno lo giudicò; fu lui stesso a farlo e si condannò senza appello perché da quel giorno si spense la luce che brillava nei suoi occhi. Negli anni a venire ha detto più volte di avere un unico rimpianto nella vita e avrebbe voluto rigiocare quella partita. Probabilmente avrebbe voluto solo tirare di nuovo quel calcio di rigore per ritrovare il sorriso perduto sotto il sole di Pasadena.