Alla fine di dicembre del 1973 un libro, pubblicato in Francia, proveniente dalla “cortina di ferro”, scosse il mondo occidentale. Rocambolescamente arrivato a Parigi, Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn mise a soqquadro anche le coscienze di molti comunisti che presero a guardare con altri occhi agli orrori dello stalinismo. Il primo volume dell’opera, concepita fin dal 1958, cui ne sarebbero seguiti altri due, divenne il simbolo della denuncia dell’universo concentrazionario sovietico. Il manoscritto giunse in Europa in più copie, grazie ad una “catena” clandestina di diffusori e la pubblicazione venne decisa quando il Kgb lo sottrasse ad una dattilografa che non aveva avuto il coraggio di distruggerlo. La donna s’impiccò, il libro venne alla luce. Ed ebbe il fragore di un’esplosione: per la prima volta veniva raccontata dettagliatamente la vita nei campi di concentramento dell’Urss, le immense e disumane sofferenze, come si moriva e si veniva gettati nella fornace dell’oblio.
Solzenicyn era uno scrittore già famoso. Nel 1970 gli era stato attribuito il Nobel per la letteratura che non poté ritirare. Era reduce dai campi di concentramento dove aveva visto in faccia il volto barbaro del comunismo, diventò il nemico principale del regime. Il 13 febbraio 1974, due mesi dopo l’uscita a Parigi di Arcipelago Gulag, venne deportato nella Ddr e privato della cittadinanza sovietica. In quello stesso mese scrisse il suo testo più significativo sotto il profilo politico: Vivere senza menzogna, l’atto d’accusa più violento contro il sovietismo. Dopo quasi due anni trascorsi in Svizzera, si trasferì negli Stati Uniti, nel Vermont, dove rimase fino al 1994 quando fece ritorno in Russia, finalmente libero, e vi morì, a quasi novant’anni, il 3 agosto 2008.
La sua opera più celebre che lo fece riconoscere al mondo come il capofila del dissenso (erano gli anni in cui il breznevismo veniva contestato da scienziati e letterati come Sacharov, Siniavskij, Maximov, Bukovskij, ecc.), provocò un terremoto quasi ovunque tranne che il Italia. Irina Alberti, a lungo sua amica e traduttrice, ricordava che in Italia su Solzenicyn si riversarono valanghe di calunnie,nel tentativo di limitare la portata delle rivelazioni contenute in Arcipelago Gulag. L’Alberti rivelò anche che quel mastodontico “memoriale” venne “scritto solo di notte, al chiaro di luna di una casupola abbandonata in riva al mare estone, d’inverno, senza mai accendere la stufa perché nessuno si accorgesse che c’era qualcuno in quel luogo considerato disabitato”. Ripensando a quel lavoro, Giovanni Paolo II, ricevendolo prima che tornasse in Russia, gli disse: “Molte delle cose che ho fatto le ho fatte pensando a lei e grazie a quel che ci ha saputo dire”.
Non lo ringraziarono, invece, gli intellettuali italiani, il sistema editoriale e culturale: venne messo ai margini del dibattito sul comunismo come un “provocatore”. A differenza, per esempio, di quanto accadde in Francia dove il tormento in molti spiriti aveva agito fino ad indurre alcuni tra i più giovani e brillanti studiosi marxisti a denunciare l’ideologia cui pure si erano votati e a dare vita alla corrente dei “nouveaux philosophes” (Bernard-Henri Levy, André Glucksmann, Jean-Marie Benoist, tra gli altri), grazie anche alle rivelazioni di Solzenicyn, in Italia l’evento di fine dicembre passò quasi sotto silenzio e quando non fu più possibile tacere, i tamburi dell’intellighentia cominciarono a rullare.
Mondadori pubblicò Arcipelago Gulag il 25 maggio 1974, cinque mesi dopo l’uscita in Francia. Ma si premunì di riversare tutta l’attenzione su una star della letteratura e del giornalismo dell’epoca: Oriana Fallaci. Quella che allora era l’icona di un certo progressismo (salvo anni dopo ricredersi) fu “utilizzata” facendo uscire pochi giorni prima del libro di Solzenicyn, la celebre Intervista con la storia, sul cui battage pubblicitario ribersò ingenti risorse, mentre allo scrittore russo che denunciava i crimini di Stalin quasi nessuna attenzione dedicò, né tantomeno si diede da fare per innescare una discussione simile a quella che si era sviluppata in Francia e negli altri Paesi europei. La Fallaci, dunque, fu inconsapevolmente utilizzata per oscurare Solzenicyn. E dire che Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori, mostrava anche disappunto perché nessuno si occupava dell’Arcipelago. Come se non sapesse che l’egemonia culturale comunista aveva da tempo fatto breccia non soltanto nei giornali, ma anche in importanti case editrici come la Mondadori.
Le recensioni in effetti furono pochissime e poco autorevoli. Rimane agli atti una di Pietro Citati, apparsa sul “Corriere della sera” il 16 giugno, il quale pur apprezzando il libro di Solzenicyn ritenne di dover aggiungere queste parole delle quali non se ne avvertiva la necessità: “Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce, credo che sia più proficuo dimenticare del tutto…”.
La “distrazione”, comunque, non bastava a chi ancora non si era reso conto della fine della “spinta propulsiva della rivoluzione”. Occorreva dedicarsi alla denigrazione. E non si risparmiarono. Arcipelago Gulag venne “smontato” da Carlo Cassola sotto il profilo “artistico” in quanto il suo autore non valeva nulla su quel piano; Umberto Eco, sempre in prima fila accanto ai sostenitori delle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”, definì Solzenicyn una sorta di Dostoevskij da strapazzo; Alberto Moravia sull’”Espresso” lo liquidò come un “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”. Del linciaggio presero atto, insieme con pochissimi altri, per contrastarlo, lo slavista Vittorio Strada ed il grande giornalista Enzo Bettiza. Questi denunciò, senza mezzi termini, “la vergognosa offensiva di vasta parte della cultura italiana”.
Fu così che la sinistra intellettuale al potere in Italia, cinquant’anni fa diede il peggio di se stessa scagliandosi non contro la verità di Solzenicyn, ma contro la verità tout court…