Angeli nascosti. Sono i monaci. Custodi del silenzio. La preghiera e il lavoro esalta il loro spirito e li congiunge a Dio. Vivono per legare la materialità alla trascendenza. Il mondo non li conosce, eppure sono nel mondo, ma separati dai suoi effimeri trionfi. E chiudono gli occhi sul mondo quando la loro missione è compiuta. Nelle antiche abbazie d’Occidente, come nei monasteri d’Oriente, lo straziante dolore dell’umanità arriva accolto dal canto dei salmi, dalle regole di vita immutate da oltre un millennio, dall’odore dell’incenso e dal sorriso appena accennato di uomini e donne che hanno scelto di legarsi all’Eterno quando neppure più l’effimero è attraente. I muri antichi grondano mormorii sempre uguali a se stessi e le stagioni che entrano nelle segrete stanze recano profumi che, con devozione, i monaci conservano. Sono i custodi più gioiosi di tradizioni che non mutano. E perciò si propongono come apostoli di una fede non scalfita dalle mode, né dalle esigenze dei costumi. Sono i soli esempi viventi di una spiritualità che ancora parla al cuore di chi sa ascoltare. Li ho incontrati nel mio lungo peregrinare ai quattro angoli della Terra soffermandomi, quando potevo, nelle loro “case”, accolto dal sorriso e dalla preghiera. E constatando, come scrive nella sua Ascesi cristiana, uno dei più esemplari monaci benedettini del secolo scorso, padre Anselmo Stolz, salito al Cielo a soli quarantadue anni, e noto per il suo straordinario misticismo che “il monaco tende alla stessa perfezione che anche il cristiano vivente nel mondo vuole conseguire; applica però mezzi speciali per poter darsi più liberamente a questo studio. La vita monastica non è di per sé una garanzia per arrivare alla santità e neppure produce un’altra perfezione distinta dall’ideale cristiano ‘ordinario’.
San Giovanni Crisostomo esprime chiaramente l’identità dell’ideale monastico con quello del cristiano vivente nel mondo: ‘Quelli che vivono nel mondo, benché siano sposati, devono in tutto il resto essere simili ai monaci’”. Un’impresa titanica, si dirà, ma forse la tendenza soltanto basterebbe a colmare il divario tra l’indifferenza verso il sacro e la conquista della contemplazione come comportamento costante.
In tempi di religiosità approssimativa e confusa, del resto, i riferimenti alle uniche figure esemplari dello spiritualismo occidentale più profondo sono quasi d’obbligo per chiarire, se non altro, che cosa significa oggi aprirsi al sacro, individuare il trascendente, vivere in una dimensione metafisica.
La modernità, tra le altre cose, ha dissipato il patrimonio che per secoli è stato il fondamento della civiltà europea e occidentale. Al punto che oggi ci si scopre fragili e angosciati di fronte alle grandi domande che l’esistenza pone e ai fini ultimi che l’uomo dovrebbe perseguire. La prevalenza del determinismo e della materialità sull’essenza metafisica della dimensione umana è la ragione del lungo lamento che, come lugubre colonna sonora, accompagna i nostri giorni tormentando le irriconoscibili anime le quali, come impaurite, cercano talvolta in false esperienze spirituali (la new age, per esempio) effimeri appagamenti alla fatica di esistere. E, non ultima, l’aggressiva penetrazione di altre “metafisiche” nel cuore del nostro mondo di occidentali disposti ad accogliere ogni cosa, ma pronti a respingere la loro stessa tradizione, ha reso irriconoscibile il rapporto delle nostre società con l’Essere; società che non mettono più al centro delle loro azioni la persona, ma il suo simulacro, vale a dire l’homo consumans. Eppure le figure esemplari evocate non mancano. Basta saperle riscoprire, magari vicine a noi, come lo sono i sempre più sparuti abitanti dei monasteri, sotto la patina della distrazione e dell’indifferenza che da tempo immemorabile le ricopre.
Quando Joseph Ratzinger, affacciandosi da Pontefice romano, alla loggia centrale della Basilica di San Pietro si fece riconoscere con il nome di Benedetto, il pensiero corse naturale a San Benedetto da Norcia, il fondatore del monachesimo occidentale. E in tanti, forse tutti, si chiesero chi fosse quel mistico operoso che in tempi oscuri almeno quanto i nostri, fondò un grande monastero, diede vita a un ordine, contribuì al rinnovamento della Chiesa di Roma che viveva una delle stagioni più controverse della sua storia. Non molto, a dire la verità, si è scritto nel secolo passato su San Benedetto la cui opera è paradossalmente conosciuta maggiormente fuori dai confini italiani, in particolare in Germania e in Austria, ma anche in Francia e in Gran Bretagna, dove la spiritualità benedettina è stata assunta a fondamento di una religiosità particolarmente sentita al punto che il Santo, come si sa, venne proclamato «protettore d’Europa». E con ragione, al di là dell’aspetto strettamente religioso. Santo europeo, infatti, Benedetto lo è per aver informato il suo comportamento spirituale a uno stile di vita proprio della tradizione continentale con la quale ha coniugato la sua Regola che ancora oggi è praticata in centinaia di monasteri in tutto il mondo, ma è vissuta come testo prescrittivo di un cammino religioso nella laicità. È questo che fa della scelta cenobitica di Benedetto un atto “rivoluzionario” rispetto al monachesimo del suo tempo che traeva dal romitaggio di tipo orientale l’imitazione ascetica.
Si può essere con Dio nel mondo, sembra ricordarci San Benedetto e si deve essere nel mondo per Dio e per le creature che Egli ha generato: un’inversione, come si può notare, o, quanto meno, una diversa apertura al sacro rispetto al posteriore francescanesimo che della “nullificazione” della persona in quanto totalmente votata alla contemplazione fino alla scarnificazione di se stessa, aveva fatto l’abito morale e comportamentale.
Nel 1929 Luigi Salvatorelli pubblicò San Benedetto e l’Italia del suo tempo. Con quel saggio storico, che risentiva ancora di molte incertezze legate alla ricerca e al difficile accesso alle fonti, Salvatorelli trasse il Santo di Norcia dall’oblio nel quale secoli di dimenticanza lo avevano relegato e rifacendosi, in particolare, alle pagine a lui dedicate dal suo più grande apologeta, Papa Gregorio Magno, per il quale non era soltanto un esempio di virtù e un difensore della fede contro le molte storture alberganti nella Chiesa del suo tempo, ma soprattutto l’innovatore della religiosità cristiana sul punto di essere “paganizzata” a puri fini politici. L’Italia e ciò che rimaneva dell’Impero d’Occidente e d’Oriente, quando Benedetto nacque, intorno al 500, erano i paradigmi della barbarie, mentre Roma moriva giorno dopo giorno sotto i colpi dei barbari che se ne erano appropriati. Il “giovane” Cristianesimo non poteva non risentirne, ma trovò negli anacoreti, negli eremiti, nei cenobiti i suoi difensori più intransigenti che lo salvarono dagli abissi, facendosi testimoni di un piano divino, nei quali rischiava di sprofondare. Come sottrarci a un suggestivo paragone con ciò che accade oggi?
Il cenobitismo radicale di Benedetto si fondava su un individualismo sociale e in questo stava la sua differenza con l’eremitismo e con quasi tutto il monachesimo precedente. La cura di San Benedetto era «cura di anime inferme, non tirannide su quelle sane». E il potere dell’abate, come osserva Salvatorelli, «non aveva altro scopo che il bene materiale e spirituale, la salvezza eterna dei suoi monaci, uno per uno». E, a conferma che la persona consacrata a Dio e al prossimo viveva la sua vita solamente in comunione con gli altri, la vita benedettina, pur essendo integralmente cenobitica, si svolgeva nel monastero che «non costituiva nessun fine a sé, nessun ente trascendentale: il fine erano i monaci, tutti e singoli, e il monastero non era che il mezzo, il luogo della loro vita, l’officina in cui essi trovavano gli strumenti della propria santificazione individuale. Se fosse stato differentemente, quello di Benedetto sarebbe stato paganesimo e non cristianesimo».
È così che il cenobio forma una famiglia, vale a dire qualcosa di stabile, di duraturo, cementata da un profondo sentimento di intimità spirituale e religiosa, nella quale la rinuncia ai beni materiali, se non quelli di sostentamento primario, è il corollario di una vita dedicata a Dio e soggetta alla Regola e all’autorità dell’abate. Lontano dalla decadenza delle città e delle corti, Benedetto da Montecassino irradiava spiritualità e cultura. Questo secondo aspetto non va trascurato. Il Santo richiedendo nel monastero una biblioteca e la familiarità con questa di tutti i monaci, anche di coloro versati in attività non propriamente letterarie, pose le condizioni dello sviluppo intellettuale del monachesimo a cui si deve il recupero della cultura classica e perfino di quella pagana nelle cui pieghe Benedetto leggeva il pensiero dell’unico Dio. Egli fuggì le devastazioni dello spirito, rinunciò alle dignità clericali, creò un tipo di comunità nuova che esercitò una forte attrazione sugli spiriti migliori e che fece crescere «libera e sola». Taumaturgo, legislatore, organizzatore, San Benedetto seppellì il vecchio mondo per indicare la strada verso l’edificazione di quello nuovo. Dopo di lui, il cristianesimo fu più forte, la Chiesa si radicò nella società italiana ed europea, il cenobitismo divenne rifugio spirituale e centro di apostolato, gli studi prodotti dai benedettini aprirono varchi alla conoscenza di grande importanza. Soprattutto dai monasteri di San Benedetto uscirono papi e santi quasi a far da corona all’uomo di Dio che testimoniò la sua umiltà rinunciando all’ordine sacerdotale: semplice asceta, ma dotato del carisma di un capo; il capo di quell’Occidente che sarebbe stato definito cristiano.
Ci salverà il monachesimo?, titola le sue riflessioni un monaco del nostro tempo, dom Beniamino Lucis (Edizioni Fede & Cultura, 2015). E’ una speranza paradossalmente “laica”. Come scrive l’autore di questa apologia ragionata del monachesimo “tanti Ordini religiosi sono sorti, hanno avuto un apogeo e sono spariti; l’Ordine monastico invece c’è ancora: è la più antica forma di vita religiosa del mondo. Esso ha attraversato le culture e le civiltà, facendo presente a tutte le generazioni l’assoluto di Dio e i veri bisogni dell’uomo. Il monachesimo è mistico, spirituale, appuntito”. E, mi permetto di aggiungere, soprattutto la Chiesa ne ha bisogno e con animo trepidante per i suoi destini al monachesimo dovrebbe guardare per rigenerarsi.
Oggi, nell’apparente indifferenza dei più, resta il silenzio intorno ai discepoli di San Benedetto, come nei romitaggi di Pec, di Decani (dove vivono, pregano e lavorano eroici monaci assediati dall’odio etnico e religioso, pronti ad accogliere i fratelli senza chiedere da dove vengano) o sul Monte Athos. Le grida non sconvolgono gli ultimi mistici del Terzo millennio. E i lunghi corridoi dei monasteri, come le piccole celle e le imponenti cattedrali e le essenziali cappelle, si riempiono ancora di canti, incenso e preghiere. Non è un miracolo?