Napoli è un luogo dell’anima. Comunque la si consideri non lascia indifferenti. Oggi non meno di ieri. E’ come una donna il cui fascino non sfiorisce mai, nonostante gli anni passino inesorabilmente ed un destino non proprio benevolo si accanisca su di lei. Ha l’aria stanca, ma è ancora seducente. Cerca di nascondere le rughe che la segnano, ma non ci riesce e s’immalinconisce. Il Tempo, però, è un “grande scultore”, come diceva Marguerite Yourcenar, e s’incarica di renderla attraente comunque, proprio come quelle anime che non si dissolvono, ma permangono nella memoria di chi le frequenta, le abita, le accudisce, le ama di un amore passionale, esclusivo, quasi carnale. Napoli risponde con la frenesia che si porta dentro dalla notte dei tempi e non delude, neppure adesso che la luce del tramonto la colpisce rendendola un po’ più misteriosa, rinnovando in chi vi si accosta senza pregiudizi lo scandalo della Bellezza intatta nonostante le ferite che hanno martoriato il suo corpo e sulle quali gli unguenti non alleviano i dolori. Eppure è un miracolo la sua vitalità che la rende impermeabile alle offese che quotidianamente le vengono arrecate. Ed è un peccato che il lungo lamento a cui si abbandona non venga ascoltato da chi pure dice di non poter fare a meno di lei. E’ commovente la sofferenza di Napoli, elemento della sua Bellezza, ma, paradossalmente, anticamera di un Inferno che ci si ostina a nascondere.
Tra questi due poli si dispiega il sorriso malinconico della città dell’anima attraversata da convulsioni che si gettano nel suo mare calmo quando a sera sulla superficie si fermano i sogni, i pensieri e le sofferenze le si vorrebbe annegare in quelle acque che non sembrano neppure sporche. Un mare ricco di storia, che s’infrange contro scogli sui quali, paradossalmente, la storia sembra essersi fermata. Ed è questo che Napoli non sopporta: essere uscita dalla storia. Ma è proprio così, ci chiediamo increduli dopo averla attraversata in lungo e in largo, esserci estraniati dai monumentali disastri che la popolano, esserci addentrati nelle viuzze della gloria dimenticata, esserci attardati davanti ai tuguri e ai palazzi che descrivono la miseria e la nobiltà di una città nella quale i poveri ed i ricchi hanno sempre avuto, almeno fino a quando non è stata invasa dalla plebaglia dei corrotti e dei corruttori con i portafogli gonfi, una straordinaria dignità portata con naturale eleganza, per come potevano portarla l’ignorante ed il colto, il derelitto ed il borghese, l’”arrangiatore” e l’aristocratico? Sì è così. E vorremmo essere smentiti, ma la fuoriuscita di Napoli dalla storia è un fatto incontestabile che neppure l’amore e la pietà possono negare. La storia, infatti, si è fermata davanti ai disastri urbanistici, alla criminalità che mette a ferro e fuoco la città, alla paura che invade i “bassi” ed i quartieri alti, la sporcizia diventata fonte di ricchezza per delinquenti che ignorano la sorpresa di Goethe quando la visitò e la scoprì più linda e seducente e ricca e capricciosa di Parigi.
La storia si è arenata sulla cenere di un sentimento della vita andato in fumo, sui sogni che nessuno insegue più, sulle passioni rattrappitesi a contatto con una materialità indecente contro la quale stanno le lacrime, per chi ancora ne ha, di napoletani rassegnati all’Inferno, ma pur sempre legati all’idea di Bellezza di questa città che nasconde spicchi di Paradiso i quali, tuttavia, non possono restituirle lo spirito che si è nascosto rendendola dolente, ripiegata su se stessa, rabbiosa a volte, rinunciataria al punto di non riconoscere più la sua antica nobiltà racchiusa nelle forme, nelle strutture, nei giardini, nelle dimore, nel canto sottile che si ode tra Posillipo e Mergellina mentre albeggia in primavera ed il cielo è una promessa di vita in poche ore destinata a disperdersi.
Sfoglio un album fotografico di quel genio che fu Riccardo Carbone (1897-1973),ricordandolo a cinquant’anni dalla morte , primo fotoreporter del “Mattino”, e mi viene una stretta al cuore vedendo, quasi taccando, Napoli com’era. Ma non mi preoccupo: Non rischio un infarto, bensì soltanto una benefica commozione perché ci restituiscono, sulla soglia dell’Inferno, l’immagine dell’ultima bellezza di Napoli immortalata dall’obiettivo del grande fotografo tra il 1930 ed il 1970. Non sono soltanto foto per un giornale: guardandole una dopo l’altra costituiscono la trama di un racconto, o forse un romanzo, quello di un’epoca o, più verosimilmente, il reportage di uno speciale osservatore, figlio di una città amata, che ha saputo con la sua macchina fotografica penetrare l’intensa vita di donne e uomini affaccendati attorno alla quotidianità ed allo straordinario, alla depressione ed alla rinascita.
Carbone è riuscito a restituire concretezza ai sentimenti e poesia alla vita minuta; ha saputo cogliere l’eleganza negli sguardi dei bambini, negli assembramenti gioiosi e dolorosi, negli occhi vivi e bellissimi di affascinanti prostitute cui niente era più estraneo della volgarità; ha penetrato con il suo strumento le passioni, le frenesie, gli eccessi della sua gente ed ha fermato l’armonia di un mondo per quarantenni sulla pellicola raccontando così quasi la metà di un secolo disperato e sublime, terribile ed entusiasmante, frastornante e leggero come è stato il Novecento. La Napoli “immortalata” da Carbone è così la patria di tutti, se si può dire, nella quale si sintetizzano gli umori di un’epoca che non possiamo ignorare.
L’attraversamento di una storia come quella raccontata da Carbone fa anche intendere che il dolore, come è stato nel passato, può anche essere una spinta formidabile verso la rinascita, il tempo in cui la Bellezza fa nuovamente irruzione nella storia della città e la ricrea come centro propulsore di vita, di arte, di cultura, di dialogo, di incontro. Non fu così che Napoli s’impose nel Mediterraneo ed oltre in tempi ormai dimenticati? E non fu questa la rinascita di Napoli, in epoca più recente, dopo l’ultima guerra, per esempio, quando cercava tra le rovine una sua identità?
Nel suo libro più struggente, fatto di immagini e ricordi, Istanbul, lo scrittore turco Orhan Pamuk, scrive: “L’infelicità è odiare la propria città”. Ho meditato a lungo su queste parole e, per quanti sforzi abbia fatto, non mi è venuto in mente altro che Napoli. Com’è possibile odiare una città che, da qualsiasi parte la si guardi, non può suscitare un sentimento simile? E’ possibile, come quando un grande amore finisce e finisce male. Quanti innamorati di Napoli hanno dichiarato la loro infelicità che poi si traduceva in attrazione, magari impossibile da concretizzare e se ne tenevano lontani per evitare di soffrire? Quanti “illustri” e meno illustri si sono allontanati dal loro mondo perché Napoli non lo era più? Rassegnarsi alla sua fine sempre annunciata non è in linea con lo spirito dei napoletani i quali, soltanto agli occhi di chi non li conosce, possono apparire poco tenaci e volitivi. Nelle foto di Carbone la voglia di vivere gioiosamente si sposa con la voglia di fare. Mi è tornata in mente una pagina meravigliosa ed intensa di Raffaele La Capria, laddove rivela, nella sua “fantasia sulla storia di Napoli”, L’armonia perduta, il senso della “napoletanità”, appunto: “Mentre mi addentro nelle strade di Napoli sconvolte dal traffico come da un ciclone , qualcosa m’arriva a intervalli oltre l’orrendo frastuono, qualcosa di lieve e suadente, che lì per lì non riesco a capire cos’è, se un’impressione, un influsso, un suono… Sì, un suono: il suono familiare del dialetto. Arriva al mio orecchio a intervalli, e tutto, d’incanto, si placa intorno a me, sembra meno selvaggio, meno disperato. E tollerabile. Il dialetto, ecco cos’è che tiene insieme la mia tribù, l’unico elemento aggregante in questa disgregazione. Non la politica gli uomini le istituzioni le vestigia del passato, ma il dialetto, invisibile membrana maternale e tenace reticolo, è il luogo dove ancora si riconosce la comune identità napoletana”.
E’ vero, soltanto chi non conosce Napoli può sottovalutare questo dato che, con uno sforzo di immaginazione, sembra emergere nelle “figure” riprese dal grande fotografo che ha ispirato questo ricordo di Napoli tra passato e presente. Quale altra lingua potrebbero parlare quegli scugnizzi, quei signori addobbati a festa, quelle signorine in attesa di clienti, quelle dame a passeggio, quella folle che applaude Mussolini e Kennedy, Vittorio Emanuele III e Lauro, che saluta gli emigranti e festeggia la squadra di calcio al “Collana” e al “San Paolo”? Il tempo di Maradona e degli scudetti sarebbe arrivato molto tempo dopo. Non manca la “voce” alle fotografie di Carbone che oggi potrebbero essere perfino catalogate come reperti di un passato a cui i napoletani sono particolarmente affezionati, anzi, secondo qualcuno, ne avrebbero una vera e propria “ossessione”. Non c’è niente di male, come già rilevava un grande scrittore napoletano purtroppo dimenticato, Giovanni Artieri. In Penultima Napoli così si esprimeva: “I napoletani avvertono un’incoercibile necessità di ‘ricordare’ Napoli anche stando a Napoli, vivendovi, operandovi, trascorrendovi i loro giorni. E’ probabile che sia una ricontemplazione inconscia, dell’inconscio: una specie di specchio poetico, di delicata e sconosciuta zona della loro anima nella quale questa, per un inspiegabile miracolo, possa chinarsi e specchiarsi come Narciso alla fonte”
No so, francamente, se questo atteggiamento persista ancora oggi. Me lo auguro, naturalmente. Poiché soltanto amandosi così intensamente i napoletani possono resuscitare quel sentimento della “napoletanità” che dovrebbe essere l’identità della loro città, al punto di farli vivere costantemente in una nostalgia profonda per ciò che non hanno più e vorrebbero avere, almeno coloro i quali hanno la consapevolezza del sogno perduto, dell’incantesimo infranto. A tutti questi napoletani che vorrebbero ancora rimirarsi nello specchio di Narciso, cioè nel loro mare, fonte di vita, mi vien fatto di ricordare le parole di un altro grande loro concittadino “in esilio”, Guglielmo Peirce, laddove in Nostalgia di Napoli, appunto, scriveva: “Voglio ritornare a Napoli. Voglio andare a rivedere, a ritrovare, a riabbracciare la mia città. Un giorno, quando lo potrò, prenderò un treno e andrò a fare questo. Girerò a lungo per le sue strade, per i suoi vicoli, per le sue piazze. Stenderò le braccia e stringerò Napoli a me; tutta a me. Comprese le sue case, i suoi tetti, le sue terrazze”. E neppure immaginava che il suo abbraccio ce l’avrebbe restituita, tanto tempo dopo, in quell’essenza che i più ritengono smarrita. Se è vero che soltanto sul passato si può costruire l’avvenire, per una certa Napoli che l’ha rimosso è davvero difficile ricominciare, ma la speranza non muore mai.
E’ così che sfogliamo l’album di foto, ricordi, pagine ingiallite di storie della Napoli che fu con un filo appunto di umanissima speranza, piuttosto che di tristezza, inanellando un’immagine dopo l’altra, rimandi a culture diverse, a sintesi dimenticate, a contaminazioni profondamente vissute. Perché tutto questo ancora è Napoli: luogo d’incontro di culture e tradizioni; storie, usi e costumi; linguaggi che si sono mescolati ed hanno dato vita a nuove forme espressive. E’ la sacralità mediterranea che ha concepito una città così nei suoi oltre 2500 anni di storia, fondata dai Cumani nell’VIII secolo a.C., si dice nel giorno del Solstizio d’inverno il 21 dicembre 475, data fausta, dopo il lungo declino di Partenope, edificata dai greci nel IX secolo, iniziato nel 530 a.C.
Dalla leggenda alla storia, Napoli è la memoria vivente di passaggi emblematici nella cultura di un mare intriso di poesia, di musica, di arte, di amore e soprattutto di religione, Napoli è la Bellezza che si tormenta al limitare dell’Inferno su cui è pericolosamente in bilico. Dov’è un altro luogo dell’anima così impregnato di suggestioni leggendarie (la morte della sirena Partenope affranta per l’astuzia di Ulisse sfuggito al suo canto ammaliatore) e di sacre epifanie? Gli echi omerici e virgiliani ancora ci fanno sentire il richiamo del mito le cui fattezze le memorie del sottosuolo napoletano conservano insieme con Cuma, l’Averno, Procida, Posillipo. E gli spiriti nascosti tra queste misteriose asperità e tra questi oscuri anfratti, credo che di tanto intanto si destino per confondersi e distendersi sul Mediterraneo incantato dove tutto è nato e niente è definitivamente morto.
Napoli è, dunque, tante cose allo stesso tempo. La si può soltanto amare per ciò che è stata e per ciò che è, nonostante tutto. Quando ero ragazzo le giornate trascorse a Napoli mi sembravano (e forse lo erano) sempre radiose. Mi chiedevo le ragioni di quella luce così straordinariamente accecante. E non avevo il coraggio di domandare spiegazioni a nessuno. Adesso che ci ritorno di tanto in tanto, per non fare niente, ma soltanto per ritrovare quel ragazzo invecchiato e quella luce che mi ridona, sia pure per poco, l’antico benessere, Napoli non riesce a farmi soffrire. Eppure dovrei, come chiunque. Alla Riviera di Chiaia s’affollano i ricordi; dalla memoria riemergono i volti cari che non vedo più; ogni pianta è il richiamo di un turbamento giovanile quando scrutavo l’amore nascente che ispirava versi taciuti. E ciò che rimane di quella stagione lontana, vorrei portarmelo con me ben sapendo che fuori da Napoli non sarebbe lo stesso, non avrebbe gli stessi colori, non avrebbe la stessa armonia. Posso gridare come Peirce “Voglio tornare a Napoli”? Non me la sento. Meglio prendermi un pezzo d’anima di questa incredibile città e tenermelo stretto alle mie angosce ed alle mie malinconie, come angosciosa e malinconica è Napoli dietro i tendaggi del folclore e della infinita sarabanda che riempie i giorni e le notti.
Dopotutto Napoli, per uno di quei disegni indecifrabili del destino, è la città che accolse l’ultimo respiro di Giacomo Leopardi che pure amava la vita e ne conosceva la caducità. Forse non poteva morire altrove. Quel 14 giugno 1837, a Capodimonte, il poeta esalava l’ultimo respiro. Ma poco prima, rivolto all’amico Antonio Ranieri che lo assisteva in compagnia della sorella Paolina, con gli occhi sbarrati disse: “Io non ti veggo più…ci vedo meno… apri quella finestra… fammi vedere la luce…”. A giugno il crepuscolo a Napoli dura a lungo. Dalla collina si poteva scorgere ancora il volo delle rondini nel sole che si tuffava nel mare. La luce fu l’ultima cosa che Leopardi chiese. Non poteva essere diversamente. Napoli, oltre che luogo dell’anima, è città della luce, come sanno i poeti ed i fotografi.