La lunga attesa è finita nella notte di giovedì. E con essa è terminato il viaggio non meno lungo che da trentatré anni il Napoli ha intrapreso sulla strada che l’ha portato al trionfo. Un campionato vinto con largo anticipo, cinque giornate (un record), con tanta tenacia, senza mai mollare nonostante le molte avversità dovute agli infortuni e da ultimo alle delusioni in Champions League che hanno moralmente, sia pure per un breve periodo, fiaccato la squadra. Ma le avversità non hanno avuto la meglio sull’orgoglio di una squadra costruita senza grande dispendio di denaro e realizzando risultati impensabili alla vigilia della stagione calcistica.
Eupalla, come Gianni Brera definiva la divinità che protegge il calcio, ha posato i suoi occhi benevoli sul “Maradona” e con il concerto di una grande squadra ha mandato in visibilio Napoli che è in festa. Una festa “pagana”, se così si può dire, che tuttavia non lascia in bocca sapori acri perché è la festa di tutta una comunità che celebra l’appartenenza ad un mondo senza distinzioni sociali, culturali, di ceto e di credo politico.
Altrove uno scudetto è forse la “normalità, a Napoli è l’eccezione e per questo le celebrazioni sono solenni al punto che si prolungheranno almeno alla fine del campionato con la gioiosa follia napoletana che le accompagnerà, con gli inevitabili giri nei vicoli e nelle strade cittadine appena le condizioni lo permetteranno dei ventidue protagonisti di un’impresa eccezionale almeno quanto lo fu quella dei due precetti scudetti oltre trent’anni fa. Con una eccezione: quei titoli furono conquistati da grandi giocatori che sostanzialmente giocavano per uno ed uno solo giocava per tutti: Diego Armando Maradona. Il funambolo geniale argentino era capace di capovolgere con un’invenzione una partita. Il dream team di Spalletti collettivamente è stato capace di raggiungere risultati insperati ed impensabili con la classe di alcuni suoi giocatori i quali hanno saputo interpretare il sentimento del popolo e la vita di una comunità: in nessun’altra città il calcio è vissuto come a Napoli perché esso è vita e quando regala gioia è tutto un mondo a goderne. Perfino chi di Napoli non tifa o lo fa per altre squadre.
Con la sua strepitosa intelligenza, Vittorio Sgarbi ha commentato l’impresa con queste parole: “Stasera siamo tutti napoletani, quando vince Napoli vince l’Italia, è vero che ogni luogo come Roma e Milano è Italia, ma Napoli è un’Italia più profonda, io essendo di Ferrara ho sempre sentito parte della mia vita a Napoli, il Napoli vincendo si riscatta rispetto a chi ancora oggi parla male di Napoli, Napoli è vita! Io sono stato grande amico di Maradona e questa questa vittoria è anche per ricordare lui, Diego, il patrono di Napoli”.
Ecco in poche battute l’entusiasmo “pagano” di una città che al grande Pibe de oro dedica murales ed altarini. Ma non annichiliscono quelli che sono venuti dopo.
Il Napoli nel 2009 era in serie C. La cavalcata è durata quattordici anni. Di Calvari ne ha attraversati, mai poi, quasi come d’incanto, sulla sua strada ha trovato giocatori di grande qualità a prezzi, se si può dire, modici, e senza strafare s’è portato a casa Osimhen, Karavatshelia, Lobotka, Kim, Anguissa, uniti a Di Lorenzo, Meret, Rahmani, Zielinski, e compagnia cantante.
Dal punto di vista tecnico, il Napoli di Spalletti in tante occasioni mi ha dato l’impressione di assomigliare ad una delle più grandi compagini calcistiche del mondo, la grande Olanda di Cruyff che incarnava la duttilità producendo il movimento simultaneo del complesso della squadra. Ed infatti, a parte Osimhen, capocannoniere, sono andati in gol quasi tutti i giocatori, eccetto ovviamente il portiere, intercambiando ruoli ed assumendo posizioni non prevedibili durante la partita.
Con l’abbandono dell’integralismo, a partire dal modulo e dagli schemi precostituiti, si adattano le metodologie di gioco all’avversario. Ed è questa la forza di Spalletti: essere pronto a giocarsela sul campo di calcio come uno stratega sul campo di battaglia, a seconda degli spostamenti e delle strategie improvvisate dagli avversari. È la mentalità vincente che, naturalmente, non ripudia l’estetica, anzi la declina nell’utilità che ognuno può avere; per esempio, la celebra con Karatskhelia o Lobotka o anche Politano: tutti dotati di spirito d’adattamento, possono ricoprire più ruoli.
Ed ora avanti. Il ciclo di internazionalizzazione del Napoli è completato: può aspirare a più ambiziosi traguardi, al di là dei quarti di finale della Chiampions League. Il ciclo mirante alla primazia interna può anch’esso dirsi esaurito.
La conquista dello scudetto è l’inizio di un percorso che non può arrestarsi l’anno prossimo. Bisogna credersi. Ed il Napoli è fatto di credenti. Come i suoi tifosi che si celebrano e celebrano il club fino a quando le forze reggeranno. Poi incomincerà un’altra storia. Sempre nel nome e nel segno dell’appartenenza. E’ il solo collante che dà senso ad un collettivo capace di stare unito nei momenti difficili, come ha ampiamente dimostrato.