• 21 Novembre 2024
Editoriale

Giorgio Napolitano, fu vera gloria? Nell’attesa che i posteri emettano (si parva licet…) «lardua sentenza» sulla base del rigore storico, tocca a noi contemporanei formulare un giudizio arrampicandoci sulle infide pareti della cronaca. E quelle che conducono al Napolitano del Quirinale si presentano quanto mai scivolose, forse ancor di più di quelle che portano al suo avatar di Botteghe Oscure, per quanto sia difficile discernere con nettezza il primo dal secondo. Ma questo, se vogliamo, è il tallone d’Achille di ogni Repubblica: chi ne diventa presidente, per quanti sforzi faccia, non smetterà mai di appartenere a una cultura politica e quindi a un partito. E il comunista Napolitano non poteva certo fare eccezione. Non è per polemica se vi accenniamo, ma solo per tentare di illuminare alcune tortuosità del suo controverso interventismo.

E così si arriva diritti al 2011, annus horribilis per l’Italia: il governo è sfibrato nei numeri per effetto della scissione finiana e in gravi ambasce in Europa per l’aperta ostilità dell’asse franco-tedesco (ricordate i maligni sorrisetti di Merkel e Sarkozy?) nei confronti del premier Berlusconi. Nel Mediterraneo è invece attivo ed operante l’asse franco-americano, che propizia lo sciagurato crollo del regime di Gheddafi mentre le posticce “primavere arabe” hanno già trasformato il Nord-Africa in una polveriera attraverso la destabilizzazione di Tunisia ed Egitto (oltre che dello Yemen). Uno scenario da incubo, di cui l’Italia paga ancora le conseguenze sotto forma di instabilità geopolitica e di insostenibile pressione migratoria sulle sue coste.

Ma il 2011 è anche l’anno in cui la speculazione finanziaria aggredisce il nostro debito sovrano con conseguente impennata dello spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi. Cosicché quando il 12 novembre Berlusconi, ormai impossibilitato a continuare, sale al Colle per rassegnare le dimissioni, Napolitano si trova a dover decidere di una delle crisi politiche più ingarbugliate della Repubblica. Tanto più se si considera che novembre non è solo il mese del disarcionamento del Cavaliere o dello spread. Il calendario cerchia infatti il nove quando il differenziale tra debito italiano e debito tedesco si fa iperbolico, fino a toccare i 575 punti. Per uno singolare scherzo del destino è lo stesso giorno in cui King George (così definiva Napolitano chi lo considerava più monarca che presidente) insignisce del laticlavio a vita Mario Monti.

Una mossa tutt’altro che casuale, anzi fortemente voluta. Destinata, soprattutto, a scompaginare l’assetto politico bipolare fin lì sperimentato. Sarà infatti proprio il professore bocconiano a guidare il nuovo governo, con la destra che prima grida al complotto salvo poi rientrare nei ranghi, e la sinistra che fatica a digerire stupore e delusione per poi accucciarsi ai voleri del “compagno Giorgio”. Un esito che a prima vista potrebbe far pensare ad una decisione equanime e imparziale, visto che scontenta tutti. In realtà, alla sua base c’è la preoccupazione che legge elettorale e appeal ancora forte di Berlusconi presso gli italiani difficilmente riusciranno a trasformare il voto anticipato in una passeggiata trionfale della sinistra. Non è solo partigianeria. A spingere Napolitano a preferire il governo tecnico al «temporale omerico» (copyright di Giuliano Ferrara) di un’elezione “sotto la neve” è la volontà di archiviare la stagione dell’antipolitica che lui identifica – e qui sta l’errore – con il fondatore del centrodestra.

Certo, Berlusconi era venuto alla ribalta come il vindice della società civile contro i professionisti del «teatrino della politica», l’uomo del fare contrapposto alla sterilità delle liturgie partitiche, l’incarnazione del ghe pensi mi refrattario alle fumisterie dei programmi di governo, ma è anche vero che era riuscito a convertire in federalismo il separatismo della Lega, ad assecondare la vocazione bipolarista di Alleanza Nazionale e, infine, a rilegittimare le culture politiche della Prima repubblica travolte da Tangentopoli. Antipolitico sì, ma con juicio. Ben altra cosa da lui era la bolla antipolitica extraparlamentare. E Napolitano, politico troppo avvezzo al primato del palazzo sulla piazza, manco s’era accorto – direbbe Bersani – della «mucca nel corridoio», cioè della montante marea grillina che da lì a due anni avrebbe sospinto il M5S al 25 per cento, incuneandolo a mo’ di terzo incomodo tra centrodestra e centrosinistra. Insomma, se il rifiuto di restituire la parola al popolo dopo la crisi del 2011 fu dettato a Napolitano dalla volontà di anestetizzare l’antipolitica attraverso il soporifero governo dei tecnici, l’effetto sortito fu esattamente opposto.

L’argine è saltato allora, come dimostra il rapido contagio, a destra come a sinistra, dei temi della propaganda anti-casta con effetti non di rado ridicoli. Un esempio? Il coro di ipocriti consensi che ha accompagnato la farlocca e qualunquistica riduzione del numero dei parlamentari, cui fa oggi da farsesco pendant l’assoluta mancanza di dialogo sulle riforme. Quasi ad ammettere che l’accordo è possibile solo sulle soluzioni di facile consenso. Sul resto, invece, s’arrangi chi può. L’errore di Napolitano, in definitiva, è stato quello di aver voluto dare il volto di Berlusconi all’antipolitica attingendo dall’armamentario polemico della sinistra. Dimenticando che la bestia è da sempre di casa in Italia, spesso vezzeggiata e foraggiata dall’establishment. Non a torto Longanesi sosteneva che da noi «le rivoluzioni cominciano in strada e finiscono a tavola». Comunque sia, visti i risultati, l’idea di poterla sradicare facendo fuori il Cavaliere si è rivelata più che fallace. In pratica, fatte le dovute proporzioni e le debite differenze, il Napolitano del 2011 ha«ucciso il maiale sbagliato» come capitò di dire a Churchill del 1945 una volta resosi conto che sbarazzarsi di Hitler per ritrovarsi con Stalin non era stato poi un così buon affare. A conferma che tutti i politici possono commettere errori, ma solo gli statisti lo ammettono.

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).