Nel Seicento, l’arte italiana è ancora un faro nel panorama europeo, e si afferma come una vera e propria istituzione culturale in grado di esportare talenti: l’arte barocca vedrà dunque una fioritura eccezionale, con il maestoso realismo del Caravaggio e del Bernini; un’arte che si prefigge l’obbiettivo di lasciare un segno indelebile nei fortunati che hanno ancora oggi l’opportunità di ammirare, magari anche dal vivo, queste opere.
E benché l’Italia continuerà sempre a essere punto di riferimento nel mondo anche dopo il Seicento, in virtù del suo glorioso passato, di lì in poi si assisterà all’emergere e all’affermarsi di altre realtà che detteranno le regole dei successivi sviluppi artistici in Europa e poi nel mondo. Non un processo improvviso, ma che anzi aveva dato le prime avvisaglie con la Letteratura, che perde il primato acquisito nel Trecento e durato fino alla fine del Rinascimento.
Ma quali sono le ragioni di questo mutamento? Sono indubbiamente ragioni a carattere “religioso” e politico-economiche; le ragioni religiose sono afferenti al meccanismo per cui l’Italia sia stato il paese che ha storicamente subito di più l’asfissiante controllo dell’Inquisizione, la quale ha, nel migliore dei casi, condizionato tutte le produzioni artistiche, nel peggiore censurato e dunque impedito lo sviluppo del libero estro artistico.
I secondi motivi sono altrettanto importanti dei primi: l’Italia perde il suo primato politico ed economico in Europa; ricordiamo che fino a quel momento il Bel Paese aveva avuto posizione egemone, imponendosi sul piano internazionale anche economicamente…ma con l’affermarsi di altre potenze nordeuropee sulle nuove rotte continentali, queste prerogative italiane, iniziano a venire meno.
Eppure c’è un campo che nel Seicento vedrà la consacrazione italiana, e che a differenza degli altri a cui abbiamo fatto cenno, continuerà a essere punto di riferimento almeno fino ai primi del Novecento: quello musicale.
Ebbene, la musica italiana durante il periodo Barocco, forse, raggiunge il suo massimo, con Monteverdi, Domenico Scarlatti, Antonio Vivaldi, e altri ancora; sia chiaro, nostro intento è quello di produrre una piccola panoramica, in quanto ognuno dei citati compositori meriterebbe ben più di un articolo.
Partiamo col dire che, geograficamente, la musica si sviluppa in quattro città italiane: Firenze, Roma, Venezia e, soprattutto, Napoli.
Firenze vedrà la nascita del melodramma, legata alla Camerata de’ Bardi o Camerata Fiorentina, un gruppo di nobili che erano soliti riunirsi alla fine del XVI secolo a Palazzo Bardi a Firenze per discutere sulle opportunità date dal rapporto tra poesia e musica. I componenti più importanti della Camerata Fiorentina furono Giulio Caccini, Jacopo Peri, Emilio De Cavalieri e Vincenzo Galilei, padre del più celebre Galileo Galilei. L’idea degli intellettuali della Camerata era quella di ridare vita allo stile drammatico degli antichi greci, sulle cui esecuzioni si disponeva effettivamente di scarsissime informazioni; si iniziò ad affermare quindi uno stile recitativo in grado di cadenzare la parlata corrente e il canto, il famoso “Recitar cantando”, uno stile recitativo, dove una singola voce recitava cantando, accompagnato da strumenti musicali. Il canto seguiva rigorosamente le inflessioni della recitazione. L’opera era ancora ben lontana da quella alla quale siamo oggi abituati: il ritmo era lento, l’azione scenica ridotta, il canto privo di virtuosismi e vicino al ritmo della recitazione, l’accompagnamento musicale era affidato a pochi strumenti che facevano da sostegno alla monodia vocale.
Inizialmente i melodrammi venivano rappresentati nei grandi palazzi dei nobiliari, in occasione di avvenimenti particolari, finchè nel 1637 fu aperto a Venezia il primo teatro pubblico a pagamento, il “San Cassiano”; un evento straordinario che permise anche a “tutti” la partecipazione agli spettacoli teatrali e che determinò il definitivo successo del melodramma; nel giro di mezzo secolo il San Cassiano fu affiancato da altri sedici teatri, dove furono allestite oltre 300 opere e moltissimi nuovi teatri si aprirono in tutta Europa.
Legato alla nascita del melodramma è di sicuro Claudio Monteverdi. Musicista dallo stile rivoluzionario, è autore dell’ “Orfeo”, universalmente considerato il primo vero e proprio melodramma.
Monteverdi diventerà l’ultimo grande polifonista del Rinascimento e insieme il primo geniale interprete della monodia accompagnata. Un genio capace di farsi ponte tra due epoche. Più di un rivoluzionario, più di un innovatore: un anticipatore, e, come tale, brucia subito le tappe. Istruito sin da piccolo dal famoso Marcantonio Ingegneri, Claudio mostra immediatamente un talento fuori dal comune, iniziando a comporre prestissimo.
A 25 anni diventa violista alla corte del Duca di Mantova e qui, con grande umiltà, impara il mestiere di musico di corte. L’humus culturale dentro e attorno alla corte è inebriante: Monteverdi conosce le opere di poeti e artisti come Torquato Tasso e Giovanni Battista Guarini, ma anche i virtuosi cantanti di Ferrara. Circondato di visionari e virtuosi, il maestro affina lo stile per cui passerà alla storia: spiazzante, estroverso, espressivo, teatrale. Una polifonia che contravviene alle regole vigenti del contrappunto e si arricchisce di inedite progressioni armoniche capaci di rendere in maniera magistrale gli “affetti”, cioè le emozioni, presenti nei testi: la parola prende vita in musica per la prima volta.
Sebbene la grande stima del Duca di Mantova, l’onorario che Monteverdi riceve non è abbastanza. Non sentendosi apprezzato a dovere, e più ambizioso che mai, fa di tutto per ottenere un prestigioso e ben retribuito incarico come maestro di cappella nella basilica di San Marco a Venezia; un impegno che dà presto i suoi frutti, tra applausi e critiche. Le sue partiture, stravolte nella forma e nella struttura, fanno indignare i più tradizionalisti: fra tutti, il bolognese Artusi definisce la sua musica “aspra” e “poco piacevole all’udito”. Lui però non dà peso alle polemiche e risponde con dei nuovi madrigali che diventano subito delle “hit”.
Il segreto del suo successo è presto detto: la sua musica è la prima ad allontanarsi dalle fredde atmosfere cinquecentesche per addentrarsi tra i chiaroscuri dell’animo umano, in una continua ricerca della “verità di espressione”, cioè della perfetta unione tra musica e parola.
Nel 1607 prende forma “L’Orfeo”, la sua prima opera teatrale e tra i primissimi esempi di melodramma. Tra i vari componimenti dell’epoca fu infatti il più apprezzato nei centri di cultura musicale europea. Purtroppo dopo il primo debutto al Palazzo Ducale di Mantova e in altre città italiane e a seguito della morte dell’autore, l’opera venne prematuramente dimenticata fino al XIX secolo; tuttavia, si è “conservata” fino ad oggi, rimanendo l’esempio più caratterizzante del melodramma italiano, oltre che il più rappresentato in Francia, Spagna e Inghilterra. Nata su iniziativa del principe Francesco Gonzaga, il libretto dell’opera venne commissionato alla penna di Alessandro Striggio il vecchio e accompagnata ad arte dalla musica di Monteverdi. I libri di Ovidio e Virgilio fecero da modelli insieme al lavoro di Poliziano “Fabula di Orfeo” e “Euridice” di Ottavio Rinuccini. Tuttavia l’opera è in sé ancora più completa e interessante, infatti la storia si sviluppa a pieno solo tramite la sapiente espressione musicale e l’audace melodia polifonica.
L’attività di Monteverdi si articolò principalmente nel Centro e Nord Italia, ma un’altra città diventerà il centro di un’intensissima attività musicale: Napoli. I maestri della cosiddetta “Scuola Napoletana” sono moltissimi, e tutti famosi, quantomeno per gli addetti ai lavori, e meriterebbero, come detto, ampi spazi a parte.
Eppure c’è forse un nome su tutti che forse andrebbe ricordato nella schiera dei più talentuosi e influenti compositori napoletani del periodo barocco: Domenico Scarlatti.
Domenico Scarlatti nasce a Napoli il 26 ottobre 1685. Clavicembalista, forse anche il più talentuoso del suo tempo fu allievo di suo padre, Alessandro, e poi di Francesco Gasparini a Venezia.
Domenico, oltre ad essere stato allievo del padre, ha probabilmente studiato al conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo di Napoli assieme a Gaetano Greco, del quale ha certamente subito l’influenza. Nel 1701 era già organista presso la cappella reale di Napoli. Nel 1705 parte per Venezia dove fa la conoscenza di Handel, non senza una celebre sfida che i due avrebbero disputato a colpi di organo (dove vince Handel) e di clavicembalo (dove si impone Scarlatti). Dal 1709 al 1714 è al servizio della regina Maria Casimira di Polonia, vedova di Giovanni III di Polonia, il re che comandò le forze della coalizione cristiana nella vittoriosa battaglia di Vienna del 1683. Successivamente Domenico diventa maestro di cappella dell’ambasciatore portoghese a Romaa: sarà lui a presentarlo poco dopo alla corte di Madrid dove Scarlatti diventerà l’insegnante della futura regina consorte Maria Magdalena Barbara. Nei ventotto anni della sua carriera spagnola la sua esistenza è perpetuamente complicata dalla sua passione per il gioco. Morirà a Madrid nel 1757. Pur essendo di grande importanza anche la sua musica vocale e sacra, Scarlatti passò alla storia soprattutto come compositore di musica per clavicembalo.
Lasciò un immenso corpus di musiche per clavicembalo che occupano un posto rilevante nell’evoluzione della tecnica e della composizione per strumenti a tastiera. Le 555 sonate, di cui poche furono pubblicate durante la vita di Scarlatti, furono stampate in modo non sistematico nei due secoli e mezzo successivi. Scarlatti ha, tuttavia, attirato ammiratori di rilievo, e la scuola russa di pianismo ha particolarmente valorizzato queste sonate. In questi brevi brani, costituiti generalmente di un solo movimento bipartito, Scarlatti si dimostrò pioniere di tecniche tastieristiche nuove per i suoi tempi, come arpeggi, note ribattute in agilità, incroci delle mani, ottave spezzate e percosse, doppie note. Dal punto di vista dello stile, le sue sonate sono caratterizzate da una rapidissima mobilità espressiva, e da una grande inventiva armonica, con l’impiego di un vocabolario accordale spesso sorprendente. È proprio la sua opera cembalistica, più che quella teatrale, a costituire la maggiore eredità del musicista napoletano, e ciò è dimostrato anche dal peso ad essa attribuito dalla tradizione didattica non solo cembalistica, ma anche pianistica. Uno degli attributi distintivi dello stile delle 555 Sonate di Scarlatti è costituito dall’influenza della musica popolare iberica (portoghese e castigliana).
A chiusura di questo piccolo lavoro, come non citare uno fra i più famosi compositori italiani di sempre, il cui stile ha influenzato tutta la musica dopo la sua composta: Antonio Vivaldi.
Iniziò giovanissimo a studiare violino con il padre, violinista nella Cappella di San Marco, finché nel 1703 venne ordinato sacerdote e fu dunque soprannominato il “Prete Rosso” a causa del suo colore di capelli.
Dal 1703 al 1740 Vivaldi ricoprì diversi incarichi musicali presso l’Ospedale della Pietà di Venezia, una istituzione di carità destinata all’istruzione musicale di ragazze orfane e rimase sempre in contatto con questo Istituto nonostante i suoi numerosi viaggi in Italia e all’estero. Primo incarico fu quello di insegnante di violino e successivamente, per le orfane dell’Ospedale, Antonio Vivaldi compose la maggior parte dei suoi concerti, delle cantate e delle musiche sacre.
In seguito si trasferì a Roma; qui compose diverse opere sotto il patrocinio del cardinale Ottoboni. Vivaldi era sempre in viaggio e uno di questi viaggi lo portò nel 1730 ad andare a Vienna e Praga e insieme al padre dove vide rappresentata una delle sue opere intitolata “Farnace”. Ritornò lì anni dopo, quando la sua musica ormai non veniva più considerata e apprezzata come un tempo ed era interessato a diventare compositore alla Corte Imperiale di Vienna, ma la morte dell’imperatore Carlo VI nel 1740 lo lasciò solo e senza nessun potente che lo appoggiasse.
Antonio Vivaldi morì in povertà l’anno seguente, nel luglio del 1741 a Vienna.
L’influenza come compositore di Vivaldi sui suoi contemporanei, italiani e stranieri, riguardò soprattutto la musica strumentale e principalmente gli innumerevoli concerti per strumento solista e orchestra d’archi; scrisse oltre 450 concerti di cui circa 250 sono dedicati al violino, di cui il Prete Rosso ne sviluppò enormemente le qualità tecniche ed espressive; mentre gli altri impiegano ogni genere di strumento tra cui anche il mandolino oltre che al violoncello, fagotto, flauto e oboe. Negli allegri, dal ritmo incalzante e vitale, i soli si alternano ai tutti, mettendo in luce un contrasto espressivo e timbrico e un virtuosismo brillante. Nei brevi adagi il solista ha invece modo di esprimere una delicata cantabilità.
Una parte dei concerti è raggruppata in 9 raccolte, le più significative sono “L’estro armonico” (1711) e “Il cimento dell’armonia e dell’inventione” (1725). A quest’ultima appartengono i celeberrimi concerti detti “Le quattro stagioni” in cui l’intento descrittivo, assolutamente centrato, evidenziato da sonetti che precedono ogni stagione, è realizzato attraverso il sapiente e colorito impasto timbrico, con effetti bizzarri e inconsueti di imitazione della natura e di vigoria espressiva.
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi, poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.