No, non c’entra niente il concetto filosofico. Non si parla qui della “levatrice della storia”, né delle riflessioni di Georges Sorel che hanno segnato la storia della cultura e della politica del Ventesimo secolo. Neppure è il caso di scomodare i rivoluzionari di varia tendenza per tentare un approccio ad un tema tanto vasto e così difficile da decifrare. Intendo, molto più modestamente, riferirmi alla quotidianità segnata da un orribile adattamento da parte di tutti noi alla violenza.
Che sia effimera, estesa, sistematica, episodica ha poca importanza. Quel che rileva è la sua carica devastante che ha contagiato le nostre abitudini, i rapporti interpersonali, perfino gli svaghi. Negli stadi e nelle piazze, nelle private dimore, nelle scuole, nelle fabbriche e negli uffici, addirittura nelle aule parlamentari la violenza ha fatto irruzione con la forza di uno tsunami. Fermarla è impossibile. Ci si adatta, quando è il caso, a conviverci considerandola parte della nostra condizione umana. Per quanto possa sembrare assurdo è così.
Nel Rapporto mondiale sulla violenza e la salute (World report on violence and health) pubblicato dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni giorno più di 500 adolescenti e giovani muoiono a causa di atti di violenza e tra i 3,5 e i 7,5 milioni di giovani vengono ospedalizzati ogni anno per lo stesso motivo. Tra le vittime della violenza, si contano milioni di bambini maltrattati e molestati dai propri familiari adulti e soprattutto donne vittime di innumerevoli abusi privati e pubblici come le deportazioni di massa da parte degli islamisti jihadisti tra la Nigeria ed il Mali, per non parlare del Medio Oriente. Secondo i dati Oms, l’esperienza di abuso sessuale è alla base del 4-5% di depressione, alcolismo e tossicodipendenza negli uomini e del 7-8% tra le donne. Sono tantissime le donne uccise per mano dei propri partner. Un assassinio su due, quando la vittima è una donna, avviene infatti tra le mura domestiche. In alcuni Paesi, quasi il 70% delle donne ha subito una violenza fisica dal proprio partner. Una donna su quattro è stata molestata sessualmente dal proprio partner nel corso della propria vita e quasi un terzo delle adolescenti a livello mondiale sono state forzate ad avere la prima esperienza sessuale.
Anche gli anziani sono spesso soggetti a violenza, sia in famiglia che negli istituti dove passano gli ultimi anni della propria vita. Il numero è molto difficile da stimare, perché il problema è ancora ampiamente sotto considerato. Il primo passo per prevenire questo genere di violenze è proprio riconoscere la gravità del problema e cominciare a studiare apposite strategie di risposta.
Elevato è anche l’impatto della violenza autoinflitta: ogni quaranta secondi una persona si uccide nel mondo e per ogni suicidio ci sono tra i 10 e i 40 tentativi.
Un quadro dalle tinte fosche che impone una maggiore presa di coscienza da parte di governanti , comunità e singoli per opporsi al dilagante e deflagrante fenomeno ormai senza confini.
Ognuno, naturalmente, è libero di spiegare come meglio ritiene questo esemplare vituperio talmente coinvolgente che perfino i più miti ne restano in qualche misura soggiogati. E perciò non mi sembra il caso di formulare ipotesi che valgano a definirlo nei suoi prodromi, nel suo dispiegarsi e negli effetti che procura. La materia è sotto gli occhi di tutti e tutti sono consapevoli della sua complessità. Resta, tuttavia, l’interrogativo principale al quale è impossibile sfuggire: perché la conflittualità, su ogni cosa, è diventata accesa al punto di accecare la ragione?
Venute meno alcune categorie dell’ordine morale e civile, non si può pretendere che quelli che una volta erano contenziosi ordinari, perlopiù banali, si risolvano pacificamente. Ognuno si sente votato ad imporre il proprio punto di vista e spesso eccede al punto di seminare morte per accaparrarsi ciò che non gli è dovuto, come il suo piacere proibito o il possesso illegittimo di beni materiali.
Si spiegano così anche i recenti fatti di cronaca che gettano una luce inquietante sullo stato di decomposizione della nostra società. Inutile citare i più noti e recenti. C’è anche nel gesto violento minimo un ché di barbaro e di disumano che non può avere altra motivazione se non quella del disprezzo dell’altro, il disconoscimento della dignità umana. Si ritiene giusto predare ciò che si vuole perché è inammissibile sentirsi esclusi: questa è la credenza prevalente in ogni ambito e, dunque, non soltanto in quelli dove l’emarginazione crea il risentimento.
La violenza è il prodotto, dunque, più maturo di una cultura dell’egoismo – che si rileva soprattutto. nel femminicidi – autentico marchio d’infamia del nostro tempo, elevata a modello comportamentale, a teorica sociale; una sorta di neo-darwinismo nella considerazione che la specie non deve progredire, ma regredire allo stato primario, elementare. Del resto se il mondo non ha un ordine, come si può pretendere che chi lo vive non si adegui nel perseguire la conquista di ciò che non è suo?
E l’ordine è stato disconosciuto dal permissivismo illogico che ha puntato sul soddisfacimento istintivo, in taluni casi addirittura codificato da una cultura nichilista, l’estrinsecazione della libertà estrema.
Sicché la bellezza, la felicità, l’onore, la sobrietà – per citare soltanto alcuni valori antichi e perenni nonostante tutto – sono stati travolti dall’inquieto egoismo portatore di esclusioni e di morte.
La violenza sui corpi degli indifesi, siano essi bambini concepiti e non ancora nati o malati in stato vegetativo è la più delinquenziale delle violenze. La violenza sulle donne, poi, da possedere contro la loro volontà o da sfruttare per illeciti arricchimenti riempie di desolazione il nostro tempo così avaro nel riconoscere sul corpo femminile l’impronta divina che lo rende bello e desiderabile. La violenza che esercitano gli Stati senza ragione sui cittadini a cui dovrebbero provvedere è scandalosa almeno quanto quella che le società avanzate, evolute, affluenti esercitano sui bambini massacrandoli con gli stereotipi che vengono forniti dalla televisione e da certa pubblicistica, oltre che dalla brutalità criminale di chi si approfitta di loro come se fossero delle “cose”. La violenza che subiscono le minoranze religiose è il segno di un’epoca senza Dio poiché se essa venisse riconosciuta nessuno alzerebbe la mano sul vicino considerandolo comunque figlio di Dio. La violenza con cui viene mercificato qualsiasi sentimento a puro fine di realizzare profitti non è soltanto scandalosamente immorale, ma perverte il mercato stesso facendone un idolo mentre è soltanto uno strumento di veicolazione economica e di scambio. La violenza del linguaggio giornalistico, letterario, cinematografico, artistico, l’assorbiamo quotidianamente schiacciando un semplice pulsante o girovagando in una libreria. Dove non dovrebbe entrare assolutamente, la violenza s’insinua invece subdolamente: nelle case, nelle famiglie, dove, come la cronaca dimostra, si consumano orrendi sabba che nulla hanno di umano.
Il catalogo è ampio, come si sa; potremmo continuare a sfogliarlo all’infinito. Ne varrebbe la pena, naturalmente, ma soltanto per affermare che le fattispecie nelle quali ci imbatteremmo sono i segni orrendi della dissoluzione del legame sacrale che dovrebbe esserci tra l’uomo e la divinità, tra la legge scritta ed il diritto naturale, tra i comportamenti e l’astratta spiritualità nella quale tutto si tiene.
Ma chi potrebbe oggi, in questa autentica età del ferro, insegnare a quanti hanno disimparato i fondamentali dell’esistenza, che esiste un’altra possibilità di vita al di là del primitivismo elevato a comportamento virtuoso? Le istituzioni, lo Stato, le agenzie di orientamento formativo? Non ho una risposta. Nessuno ce l’ha fino a quando il ritorno di un’antropologia tradizionale non rimetterà al centro della vita l’intangibilità della dignità umana. E, dunque, i valori perenni; valori senza tempo, codificati tra i primi bagliori della creazione divina.