Ma è proprio vero che il grado di civiltà si misura dalle carceri? Forse solo in parte ma è un refrain al quale ci stiamo abituando. Il livello di civiltà si misura da molte cose ma soprattutto dalla qualità della sanità, delle scuole, dei servizi pubblici, dell’ambiente, del welfare e del lavoro. Il problema è che da un assunto vero facciamo discendere dei correlati sbagliati: depenalizziamo lo spaccio perché le carceri sono piene; facciamo un indulto perché le carceri sono affollate; aboliamo il reato di immigrazione clandestina e così via.
E così la cultura moderna è passata dal biblico “nessuno tocchi nessuno” a “nessuno tocchi Caino” ribaltando una indicazione religiosa in un dogma sociale ferocemente settario. Perché forse è proprio qui che si è inceppato il meccanismo quando il fior fiore di teologi e di santoni della intellettualità laica hanno alimentato l’idea che una cultura debba sempre muoversi nell’alveo della correttezza politica, il cui fatale sbocco è nella tolleranza che sfocia nel perdonismo. Invece solo aiutando Abele a non diventare Caino, poi possiamo pensare a chi lo è già diventato. Fingendo di sposare ogni tipo di affermazione perché di moda e piene di sguaiata esuberanza (e che dovrebbero provocare un moto di orrore quando se ne fanno riserve di caccia elettorale) si rischia di non saper uscir più uscire dalla barbarie.
La questione è semplice. Prima ancora di correlare il grado di civiltà alle carceri rispondiamo ad altre domande. Si può arrivare al punto di perdonare ogni cosa? E’ possibile o auspicabile voler scoprire una giustificazione per ogni fatto truculento per poi approdare alla convinzione che, in fin dei conti, sarebbe potuto capitare a tutti? Intuizioni le quali – anche se falsamente evangeliche – sembrano di straordinaria umanità, e che quindi non mi sento di escludere aprioristicamente. Siamo esseri imperfetti che non raggiungeranno la perfezione con una vita intera ma che, a differenza delle altre specie animali, mostrano pietà, sanno piangere, sono solidali, riconoscono gli errori, aiutano i più deboli e chi è in difficoltà. E ciò vale anche per chi è condannato a stare dietro le sbarre che non deve mai essere trattato in modo riprovevole.
Ma un filo sottilissimo tiene insieme la tolleranza e la volontà prevaricatrice di azzerare gli effetti delle tragedie con un colpo di spugna senza mettere nel conto il rischio che non espiare le colpe è la più alta manifestazione di ingiustizia. Perché non possiamo eliminare la violenza dalla storia ma possiamo contenerla.
La pretesa di non definire mai il probabile dal certo, porta a prediligere il compromesso alla ragione e infine dare spazio a comprensibili sottigliezze sociologiche. C’è una noncuranza per l’impunità connessa alla difesa incondizionata dei colpevoli. Fatte salve le considerazioni sull’ambiente sociale o familiare, i condizionamenti di vario tipo, gli avvocati che amano il cavillo, carceri effettivamente simili a lager, insomma, considerate tutte le tutele o circostanze varie, che non ci permettono di giudicare con autentico distacco neanche il più atroce degli assassini, l’oggetto primo a cui rivolgere lo sguardo dovrebbe però essere sempre Abele e non Caino. Solo all’interno di questa prospettiva dove vengono costantemente impediti eccessi in cui abbia l’assoluto predominio l’arbitrio colpevolista, perfino truculento, oppure il lassismo, si può anche considerare il perdono o la comprensione umana.