“Ci sono momenti nella vita nei quali ti rendi conto con evidenza che la vita stessa è un recipiente, una specie di vecchio baule nel quale, in qualche soffitta o scantinato, si sono via via ammassate alla rinfusa tante cose, senza un ordine ma così, un po’ a casaccio. In quei momenti la vita ti si manifesta come un intreccio: colleghi, fatti avvenuti, incontri, traguardi raggiunti, pensieri che ti sono passati per la testa al tempo di quei fatti e che ora ti sembrano inadeguati, sensi e significati che allora erano di un certo tipo e ora sono di un altro. E in questo intreccio ci sei tu, la tua vita. In parte hai subito quello che accadeva e in parte ne sei stato attore principale. Tu sei fatto di questo intreccio, sei questo intreccio”. Inizia così, con questa riflessione sincera, il nuovo libro di Paolo Del Debbio “Le 10 cose che ho imparato dalla vita”. Conduttore di programmi sulle reti Mediaset di notevole successo e uno dei personaggi televisivi più apprezzati dal pubblico, Del Debbio non si lascia trasportare, raccontando la sua vita, nel tunnel agiografico dove incombe il rischio di disperdersi, al contrario rifugge da ogni forma di autocelebrazione e ci consegna un affresco suadente di umiltà e generosa introspezione. Il suo è un racconto forte e lineare allo stesso tempo. Un racconto che sgorga dal cuore quando parla dei suoi genitori, della morte del padre, dopo l’8 settembre deportato dai nazisti nel campo di concentramento di Luckenwalde : Scrive il filosofo esistenzialista tedesco Karl Jaspers che “nessun fatto è eterno, nessuna istituzione resiste saldamente nel tempo; alla fine c’è il naufragio”. Questo fu per me la morte di mio padre. E pur avendo riflettuto tanto, precedentemente, sulla vita e sulla sua dimensione trascendente, sul fatto religioso che irrompe in essa, ebbene, nonostante tutto questo, questa era la prima occasione nella quale si manifesta in modo chiaro, sfacciato, non aggirabile, il male che c’è nel mondo. E’ lo stesso Jaspers che chiama questi eventi “situazione-limite” rappresentate dal dolore fisico e spirituale della malattia, dalla perdita di senso della vita, dalla lotta e dal dolore, che ognuno è destinato alla morte, un muro contro il quale urtiamo fatalmente.
Una vita, quella dell’autore, che scorre nell’infanzia lucchese tra le cure di una famiglia che lo educa al rispetto di valori essenziali: la dignità del lavoro, della persona, degli altri, l’essere custodi della preziosa religiosità insita in ogni uomo, a prescindere dal proprio credo (Homo religiosus), dello studio come asse portante della formazione individuale e terreno fertile per comprendere i fatti che muovono il mondo e elaborare idee. Una educazione, la sua, che affinerà negli anni del seminario e attraverso la conoscenza diretta, il confronto, tenacemente ricercato, con pensatori cristiani e non soltanto. E poi, il fascino del divino, quella inebriante energia che scorre nelle vene fin da ragazzo e che troverà conforto nello studio della filosofia, dell’economia, nelle esperienze del volontariato, nell’assistenza ai ragazzi invalidi, nei tanti lavori che lo impegneranno: da cameriere a porta spese a organizzatore culturale.
Poi, la svolta che cambierà radicalmente la sua vita: l’incontro con Fedele Confalonieri che prima lo sceglie come assistente e poi lo presenta al Berlusconi della discesa in campo, il leader che segnerà un profondo cambiamento nella politica italiana e che, agli esordi, è alla ricerca di chi possa scrivere il primo programma politico della nascente Forza Italia.
Di qui un impegno politico che si esaurirà con la carica di assessore alla Sicurezza a Milano. Non che non siano mancate offerte successive per un suo coinvolgimento più pieno nell’agone politico, ma per Del Debbio la strada tracciata dal destino (ma non solo dal destino) è un’altra: quella della conduzione televisiva e dell’insegnamento universitario di Etica ed economia.
Dell’impegno televisivo e giornalistico Del Debbio parla con molta umiltà e indubbia professionalità. “Ho cominciato tardi a fare televisione, a condurre, a quarantasei anni. E, francamente parlando, un po’ per caso….La tv non era mai stata presente nei miei progetti di vita, né faceva parte delle mie aspirazioni, anzi non ci avevo mai pensato. Fu Silvio Berlusconi a dirmi che ero fatto per la televisione dopo che mi sentì tenere dei discorsi e fare degli interventi pubblici… Ma io proprio non ne volevo sapere.”. Vari anni dopo, lo sprone del Cavaliere ebbe effetto.
Quinta colonna e Diritto e rovescio sono trasmissioni che irrompono prepotentemente nei talk show imprimendo una svolta sia nei modi del condurre sia negli argomenti scelti sia nei protagonisti. Del Debbio trasforma lo schermo in agorà, in piazza di confronto, di dibattito, a volte acceso, tra la gente. Piovono le critiche di populismo. Critiche alle quali dedica il libro Populista e me ne vanto in cui spiega che se “populista” significa lisciare sempre e comunque il pelo al popolo, qualsiasi cosa dica, giusta o sbagliata che sia, detta bene o male, per ricevere il suo plauso, semmai l’accusa va rivolta ai politici che stranamente fanno il giro dei mercati, e qualche volta delle periferie, solo in occasione delle elezioni. Il fatto è che “il populismo politico è una cosa e la televisione è un’altra”.
Molto belle le pagine del libro che Paolo Del Debbio dedica agli incontri con Beckett, Sartre e Camus, ai suoi studi di filosofia, teologia ed economia, alla ricerca del senso della vita. “Studi non lineari, ma sempre dettati dalla meraviglia, dallo stupore, dall’interesse verso un autore o un altro, apparentemente inutili, talora superflui, fuori pista rispetto agli studi che stavo facendo”. Da Sant’Agostino a Kierkegard, da Heidegger a Gabriel Marcel e agli altri filosofi cristiani Maurice Blondel e Jacques Maritein fino ai contemporanei tra i quali Sofia Vanni Rovighi, Gustavo Bontadini e il cremasco Antonio Margaritti, il racconto di Del Debbio si snoda lungo il sentiero complesso delle domande radicali della vita e del mistero che la circonda. Lo tormenta l’assillo di trovare una soluzione tra l’assurdo e il mistero. Lo studio della teologia per l’autore non ha altro significato, in fondo, se non quello di “cercare un senso al di là dell’assurdo presso Colui che è e rimane l’Incomprensibile”. Arrivando così a concludere con rara efficacia analitica che “proprio in quanto incomprensibile Dio può rappresentare il senso della nostra esistenza. Perché sfugge alla precarietà e all’assurdo dei nostri giorni. Non toglie l’assurdo dall’esistenza, non lo cancella, ma fa sì che l’esistenza stessa non sia chiusa nei confini invalicabili dell’assurdo e conferisce la forza e il senso anche di lottare contro l’assurdo del mondo, di non accettarlo e di porlo in un orizzonte più largo dei suoi confini. Allarga l’orizzonte laddove l’assurdo lo chiude. Poi tutto questo avviene in modo non lineare, difficile ma non impossibile, come scriveva Lev Tolstoj alla cugina Aleksàndra Tolstoja. ”Fede e miscredenza convivono nella mia anima come un cane e un gatto nello sgabuzzino”
Silvano Moffa