Non è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un «plebiscito» di tutti i giorni. Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza a una cultura e a un sistema di valori civili ci fa essere cittadini di una nazione. Sembra, e forse lo è, una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mondialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale, il relativismo etico. È difficile qualificare queste tendenze come ideologie strutturate; ma è, viceversa, facile riconoscerle come «veicoli» dell’ulteriore messa in discussione della nazione che apre la strada al rifiuto del riconoscimento delle specificità e, dunque, a un sorta di «totalitarismo morbido» avente la pretesa dell’ineluttabilità dell’omologazione culturale quale fine ultimo della «guerra» alle differenze condotta soprattutto dai gruppi di potere finanziario e mediatico. È per questo che la nazione si configura non come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno ai principi dell’intangibilità dei «sacri confini» e moralmente giustificato da una improponibile «volontà di potenza» declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico e afferma il diritto alla sovranità per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati. Per tale motivo, soprattutto, non si giustifica la pretesa di esportare (magari con le armi) la democrazia «all’occidentale» in aree geografiche dove popoli animati da altre culture non sono in grado di governarla e considerano chi intende promuoverla alla stregua di un colonialista. Ritenere, in altri termini, che chiunque e ovunque debba ragionare secondo i nostri schemi mentali, desiderare ciò che noi desideriamo, essere insomma come noi o quanto meno assomigliarci è democraticamente discutibile oltre che offensivo del principio stesso di nazionalità.
La nazione è, dunque, un’idea antica che si rinnova. Credere di poter evitare di riferirsi a essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzioni pubbliche è come voler attraversare un deserto privi di generi di sostentamento. Purtroppo l’errore che spesso, e da più parti viene commesso è quello di pensare che la nazione sia un’anticaglia sentimentale, un cascame retorico e non, com’è in realtà, un «organismo vivente» i cui elementi, se non armonizzati, rischiano di produrre conflitti difficilmente sanabili. Questo errore, con tutta evidenza, è affiorato quando si è pensato di riformare il sistema costituzionale italiano senza tener conto dei valori a cui ispirare tale lavoro che, mi sembra incontestabile, non possono che essere i valori della nazione e dell’integrità dello Stato nazionale. L’ingegneria costituzionale, senz’anima e priva di prospettive comprensibili dai cittadini, può partorire soltanto progetti velleitari; le grandi Costituzioni sono tali quando i principi che affermano sono in sintonia con lo spirito dei popoli. Uno degli errori del costituzionalismo moderno è consistito nel ritenere di poter fare a meno della nazione: non a caso uno dei pochi esperimenti del Novecento riusciti è stato quello del generale De Gaulle perché profondamente legato alle istanze del popolo francese. Questa dimensione che esplicita il sentimento dell’appartenenza appena richiamato, è possibile coltivarla, difenderla, affermarla? Credo che tutte le forze politiche autenticamente popolari e innestate nella storia nazionale abbiano il dovere di rilanciarla al fine di contrastare sia le spinte disgregatrici che dall’interno operano per una rottura della comunità nazionale, sia l’invadente relativismo etico che dall’esterno si propone il fine di recidere legami culturali grazie ai quali si tiene insieme il Paese.
La prospettiva, insomma, è quella di dare vita a una «nazione condivisa», cioè accettata da tutti a prescindere dalle appartenenze, per dare un senso concreto al sentimento che sorregge l’idea stessa di nazione: il patriottismo. Com’è facile dimostrare, esso non può essere quello della Costituzione, come pure qualcuno ha sostenuto, né quello astratto pronto a farsi supporto ideologico a scopo di sopraffazione.
Il patriottismo è il vincolo comunitario tra elementi reali che fanno parte della vita; non è escludente, ma inclusivo; non è la suprema forma dell’egoismo collettivo, ma la prova di generosità di un consapevole aggregato umano conscio che la sua sovranità finisce laddove comincia la sovranità di altri; è il rispetto che si deve ad altre culture, a tutte le culture perché manifestazioni dello spirito dei popoli e che sarebbe delittuoso cancellare.
Patriottismo e democrazia, dunque, si tengono, poiché, come osservava Lucien Febvre, il fondatore della scuola degli Annales, la patria «è una parola astratta, presa in prestito, una parola classica, certo; ma che ben presto si è riempita di sostanza umana, di sostanza individuale, di sostanza vissuta». È questa «sostanza» che la legittima, in un certo senso. Perciò l’amor di Patria, per come storicamente si è incarnato, può dirsi un’estensione dell’«amor proprio». I moralisti francesi del Settecento dicevano che ci si ama veramente soltanto amando la Repubblica e alla fine si arriva ad amarla più di se stessi. Mi chiedo con Henry Jean-Baptiste d’Anguessau, che scriveva di politica nel Diciottesimo secolo, se davvero il patriottismo che giustifica la passione nazionale, «questo amore pressoché connaturato all’uomo, questa virtù che conosciamo attraverso il sentimento, che acquisiamo attraverso la ragione, che dovremmo seguire per interesse, davvero possiede delle radici profonde nei nostri cuori?». Per quanto possa sembrare strano di questi tempi, la risposta è assolutamente affermativa. E le radici profonde del patriottismo sono in tante cose che riassumono la nostra identità, ma soprattutto nel sacrificio di chi porta nel mondo una certa idea dell’Italia.