A 77 anni, il 30 aprile u.s. si è spento Paul Auster. A Brooklyn, New York. Per citare i suoi innumerevoli scritti, compresi quelli firmati come Paul Queen o Paul Benjamin, non basterebbero le righe destinate a questo pezzo. Sceneggiatore, saggista, scrittore, poeta, biografo, s’accampa d’autorità nel postmodernismo. La voce più autorevole della società culturale newyorkese. Al momento nessuno sembra esserne degno erede. La letteratura americana ha perso un protagonista indiscusso perché Auster ha fatto della sua scrittura la carta d’identità dello statunitense insoddisfatto, alla continua ricerca di sé, attanagliato dalle angosce del vivere quotidiano, stritolato dalle nevrosi moderne, invischiato in una solitudine che cresce proporzionalmente alla grandezza della metropoli. Auster, riconoscendo un grosso debito verso colossi come Kafka, Beckett, Cervantes, Camus per l’influenza sulla sua produzione, anche filmica (ricordiamo in particolare Smoke, Blue in the Face e Lulu on the Bridge) indaga il significato dell’esistenza a 360 gradi: individuale, collettiva, sociale e storica.
Amalgamando generi, correnti letterarie e artistiche ritrae una società variegata, contraddittoria, illogica, banale o travolgente. Così nel poliziesco (il giallo metafisico) e nel romanzo psicanalitico convivono elementi del trascendentalismo e del post-strutturalismo.
Che sarebbe diventato qualcuno s’intuisce dall’infanzia, trascorsa nel New Jersey. Aveva 12 anni quando la famiglia eredita un numero incalcolabile di libri divorati dal futuro scrittore con insaziabile curiosità. Da qui l’inizio dell’amore per la letteratura destinato a persistere. Appartengono a questo periodo le prime produzioni poetiche. Tuttavia la vita lo sottoporrà a difficili prove fin da piccolo. I genitori, ebrei, attraversano una grave crisi quando Paul sta per nascere e il divorzio sarà inevitabile. Successivamente il primo grande dolore per la separazione dalla sorella, internata per problemi psichiatrici. Ma la sorte ha in serbo ben altro, più sconvolgente: la perdita del figlio 44enne per overdose.
Non meno semplice il percorso artistico.
Un soggiorno in Francia, segnato da ristrettezze economiche, diventa l’occasione per scrivere soggetti per la filmologia muta; collaborare con riviste; impartire lezioni private; tradurre Sartre, Simenon, Mallarmé.
Il ritorno negli USA coincide con una nuova fase professionale, nella quale raccoglie i primi successi: “White spaces”, abbozzo del capolavoro “The invention of solitude”. Con “L’invenzione della solitudine” l’Autore affronta il tema della morte approfondendo il ruolo di coincidenze, destino e solitudine nell’esistenza umana. Problematiche che lo intrigano, divenute leitmotiv della sua produzione, il cui successo si deve, in sostanza, all’attitudine di coniugare la riflessione letteraria, teorica per definizione, con l’impegno politico/civile. Affermava di essere “molto più a sinistra del partito democratico”. Contestatore sì. Esasperato mai. Basta la letteratura come strumento di dissenso. Così i libri più conosciuti (La musica del caso, Leviatano, Uomo nel buio ecc) esprimono un cupo pessimismo sulla natura del potere.
“Trilogia di New York” (City of glass , Ghosts e The locked room) lo consacra come lo scrittore di New York. La metropoli diventa un luogo surreale, popolato da personaggi che agiscono senza il controllo della ragione, eludendo regole e morale. Un “nessun luogo” dove l’imprevedibile è possibile. I protagonisti delle vicende, meta-detectives, collocati sotto la lente d’ingrandimento dell’ironia, nelle indagini adottano sì la tradizionale tecnica investigativa ma soprattutto elementi sperimentali, avvalorati dal postmodernismo. A proposito di umorismo, citiamo il pamphlet “Futuro dizionario d’America” (2005). Un vocabolario sui generis, nato dalla collaborazione di personalità quali Stephen King, Jonathan Franzen, Rick Moody, per dare voce al malcontento dell’intellighenzia americana verso la politica statunitense del tempo.
All’insegna dello humor, Auster compila più di mille lemmi. Famoso quello contro Bush, presidente in carica all’epoca. Definisce bush (cespuglio in inglese) “arbusto velenoso di una specie estinta”. L’umorismo intride l’intera produzione austeriana. Persino tematiche forti: dolore, lutto, memoria. E morte. Nel romanzo “4321” ne parla con allegria, diremmo con ilarità. Tuttavia la malattia lo spinge ad avvisare i lettori: «Questo potrebbe essere il mio ultimo libro». In ben 906 pagine, esorcizzando la propria morte, riflette su quella degli altri e delle persone più amate. Dopo lavori di ampio respiro, sorprende con “Baumgartner” (2023). Centosessanta pagine dense di messaggi chiari e netti, senza filtri. Un testamento artistico? Soprattutto una lunga riflessione sul senso della morte. Il protagonista non desidera morire; tiene visceralmente alla vita, alle opere prodotte e a quelle da creare. Per Paul non morire significa tenere ancora in vita moglie e figlio.
«Il vivo può̀ mantenere il morto in una specie di limbo tra la vita e la non-vita, ma quando muore anche il vivo, allora è la fine, la coscienza del morto si spegne per sempre». Come dargli torto?
E in un’intervista ebbe a dire: «Arrivati a cinquant’anni si è circondati dai fantasmi. Vivono dentro di noi e passiamo tanto tempo a parlare con i morti quanto ne passiamo con i vivi. Non saprai cosa farai di quest’accumulazione di persone perdute finché non la vivi. La vita è breve, fragile, inganna. Dopotutto, quante persone amiamo nel corso della nostra vita? Poche, molto poche. Quando la maggior parte se ne va, la mappa del nostro mondo interiore cambia». La sua mappa interiore muta con la morte del figlio e della moglie.
Aspettando “Un paese bagnato di sangue” nelle librerie il prossimo autunno (un opuscolo sulla diffusione delle armi da fuoco in Usa) rammentiamo con Paul Auster che “Tutti siamo estranei a noi stessi, e se abbiamo nozione di chi siamo è solo perché viviamo negli occhi degli altri”. (Diario d’inverno)