Se la politica è ancora capace di inventare, come la poesia, suggestioni che penetrano l’anima dei popoli e, nello stesso tempo, di rispondere alle domande più complesse che la società affluente pone costantemente ed imperiosamente, assolve al suo compito, dà un senso a se stessa. E’ quando tutto ciò non accade che la politica si spegne, perde la sua funzione, si ritrae. La sua crisi si riassume in questa notazione che compendia il senso di una tragedia collettiva poiché senza politica, come senza poesia, i popoli soggiacciono al dominio degli odi elementari che si scatenano nel recinto tribale a cui si riduce la nazione, la comunità. Ed il conflitto si nutre di istinti irresistibili perché non è culturalmente regolato da un’idea, da un principio che renda il confronto accettabile. L’approdo è il nichilismo: un indistinto nulla nel quale si dissolvono le civiltà. La politica, come la poesia, è una scienza dell’anima che riposa su valori e sentimenti e ragioni primarie che rimandano ad una visione dell’organizzazione sociale fondata sulla centralità della persona e sulla sua dignità. Il tutto si regge su due colonne: l’autorità e la libertà.
Pensavo a questo, qualche giorno fa, riflettendo sul lungo cammino compiuto da aree politiche che in circa venti anni, nel nostro Paese, hanno cercato di affinarsi per convivere al fine di interpretare l’Italia profonda e darle quel respiro di cui ha bisogno. Un respiro che sa di poesia. Perché il soffio dell’unità della nazione italiana è lungo secoli e non si esaurisce nella dimensione statuale che è un portato minimo, ma trova la sua collocazione in un’anima che, per comprenderci, chiamiamo identità. E pensando a tutto ciò mi è tornata alla mente una riflessione di Thomas Stearn Eliot contenuta nel saggio L’idea di una società cristiana. Il poeta anglo-americano annotava: “Per lungo tempo si è creduto solo ai valori derivati da una vita fondata esclusivamente sulla tecnica, sul commercio e sulle grandi città: sarebbe dunque ora di confrontarsi con le dimensioni eterne in base alle quali Dio ci permette di vivere su questo pianeta. E, senza romanticizzare la vita allo stato brado, si potrebbe anche avere l’umiltà di osservare come in alcune società che giudichiamo primitive o arretrate operi un sistema socio-religioso-artistico che sarebbe opportuno imitare a un livello più elevato. Siamo stati abituati a considerare il ‘progresso’ sempre come una realtà monolitica, e dobbiamo ancora imparare come solo attraverso uno sforzo e una disciplina maggiori di quelli che la società ha sinora giudicato necessario imporsi sia possibile ottenere conoscenze e potere materiali senza perdere sapienza e vigore spirituali”.
Il tentativo al quale ci richiama Eliot è, implicitamente, quello di riconsacrare, se così posso esprimermi, la politica traendola dalle secche dell’occasionalità per farsi progetto di vita riferito al popolo, alle sue necessità, alle sue ambizioni. E può accadere un tale “miracolo” soltanto se si ha presente che la tradizione, le radici, il vincolo identitario che ci fa partecipi di una realtà definita storicamente e spiritualmente ha la forza di legarsi alle dinamiche della modernità senza stravolgersi, annullarsi in esse. L’idea di una società organica nella quale tutte le componenti esplichino il ruolo che loro compete dovrebbe essere, dunque, a fondamento di una politica culturalmente attrezzata a favorire l’integrazione delle due esigenze al fine di ridare al popolo una dimensione nella quale si possa riconoscere. La tecnica, in altri termini, non è tutto. Assolutizzarla distrugge non soltanto l’anima delle genti, ma lo stesso Pianeta del quale siamo usufruttuari. La contemperanza tra l’utilizzazione degli strumenti dell’intelligenza e la preservazione delle ragioni dello spirito individuale e di quello delle nazioni, ritengo sia la “chiave” che apre alla modernità senza farsi inghiottire da essa.
Un movimento politico che sappia maneggiare una materia tanto incandescente, in Italia può operare soltanto travolgendo le appartenenze alle quali le sue componenti sono legate per tradurle in una identità nuova, fondata appunto sulle esigenze qui richiamate. E non si vede perché ciò non debba accadere, posto che i soggetti ai quali ci si riferisce hanno nel codice genetico gli elementi che ne giustificano la fusione guardando all’interesse più generale che è quello di creare le condizioni di una stagione nuova e sperabilmente lunga nel corso della quale la comunità nazionale rinasca innanzitutto culturalmente.
Ciò significa l’abbandono definitivo dell’ideologizzazione dell’esistenza e la costruzione di strutture sociali che rispondano ai bisogni profondi dei singoli e della collettività. Ma anche prepararsi al dialogo con le culture “altre”, scandaloso per chi è abituato, malauguratamente, a pensarsi da solo. No, non siamo soli. Lo stiamo diventando perché chiusi negli schemi difensivistici, neppure immaginando che dall’apertura possa derivare maggiore consapevolezza identitaria. E se le identità dei popoli si pensano insieme e non in maniera conflittuale, persino l’idea di tramonto di questa o quella civiltà è destinato ad allontanarsi.
Un movimento innovativo, programmaticamente votato alla “rottura” (e niente è più dirompente della sfida a costruire un insieme nel quale tradizione e modernità si tengono per mano), ha voglia di aspirare a guidare questa rivoluzione culturale o cercherà di conservare piccole rendite di posizione tanto per sopravvivere? La politica, quando è grande politica, si avvicina molto alla poesia. Ed il suo cammino può essere perfino entusiasmante come lo è stato al tempo delle straordinarie costruzioni che segnano ancora la nostra civiltà. Quando i politici creavano ed i popoli non si sentivano asserviti, bensì partecipi di grandi avventure dello spirito.