Marc Bloch nell’ Apologia della storia o mestiere di storico spiega il rapporto tra la storia e la verità. La verità è una delle cose più ambite, più promesse e mai mantenute dall’uomo. Molte volte si tende a nascondere sotto il manto della verità ciò che non è vero. La verità è come un’ombra fenice: viene perennemente inseguita, ma mai catturata. Gli storici, nella loro ricerca di verità, cercano di raggiungerla, ma il rapporto tra storia e verità si costruisce continuamente, in quanto le loro verità possono essere messe in discussione sulla base di nuove scoperte e di nuove fonti.
Nel suo recente volume Il tribunale della storia. Processo alle falsificazioni, Paolo Mieli, con l’acume giornalistico che gli è proprio e lo scrupolo dell’indagatore dei fatti storici del passato, ci offre larghissimi e, talvolta, clamorosi esempi di questa “lunga marcia di avvicinamento alla verità”. Una marcia che “conosce soste, anche lunghe, ma si tratta appunto solo di soste. Poi il cammino riprende. E non giungerà mai a una stazione finale, a un capolinea. Conta il viaggio, non la meta”.
Talvolta, nei primi vent’anni del terzo millennio, scrive Mieli, è toccato addirittura ai capi di Stati e di governo l’incombenza di rimettere in discussione verità che sembravano acquisite in via definitiva. E di scusarsi con vittime riemerse dal passato. Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, è stato costretto a chiedere perdono per quello che era accaduto a Tulsa (Oklahoma) nel maggio del 1921. Qui un giovane nero fu accusato di aver importunato una giovane bianca. Un fatto che provocò la rivolta dei bianchi e la reazione dei neri. L’assedio del presidio di polizia, un incendio e una vera e propria “offensiva bellica contro il distretto di Greenwood in cui risiedeva la comunità nera più emancipata e produttiva dell’intero Paese”. Il quartiere fu raso al suolo, i suoi diecimila abitanti costretti a cessare le proprie attività (quell’agglomerato di vie e di case era a tal punto ricco da essere soprannominato la “Wall Street nera”) e a emigrare altrove. Per molto tempo le responsabilità di quanto accaduto furono ripartite tra bianchi e neri. Poi quella idea di giudizio cadde di fronte alla scoperta che, nella circostanza, gli afroamericani non avevano colpa alcuna. Ma la storia è rimasta sospesa nel vuoto, finché, a cento anni di distanza, è stato il presidente degli Stati Uniti a sentirsi in dovere di ribaltare interamente il senso di quella vicenda. E ha chiesto scusa.
Analoghe scuse pubbliche, più o meno nello stesso periodo, ha chiesto il primo ministro canadese Justin Trudeau nei confronti degli italo-canadesi internati ai tempi della Seconda guerra mondiale. Si trattò di seicento cittadini incolpevoli che dopo il 1939 vennero rinchiusi in campi di concentramento nel timore che potessero agire come quinta colonna di Mussolini, in quei mesi in procinto di entrare nel conflitto a fianco di Hitler. Trudeau ha menzionato un caso particolare, quello di Giuseppe Visocchi, arrestato nell’estate del 1940 mentre era ad un matrimonio a Montreal. Gli fu detto che si trattava di accertamenti e verifiche. Invece fu rinchiuso nel campo per prigionieri di guerra di Petawawa, dove rimase per lunghissimi anni, senza che i familiari sapessero che fine avesse fatto.
Anche Emmanuel Macron ha dovuto recentemente cosparsi il capo di cenere e riconoscere le responsabilità del suo Paese nel genocidio dei Tutsi in Ruanda (1994). Il presidente francese, dopo aver affidato ad una commissione di studiosi il compito di passare al setaccio una mole enorme di documenti nei quali si sono rintracciate le prove della “cecità” dei francesi nei confronti dell’attività genocida del regime “razzista, corrotto e violento” di Jouvénal Habyarimana, protetto all’epoca da Francois Mitterrand. Quel regime si rese responsabile delle stragi perpetrate dalle milizie Hutu, che causarono probabilmente oltre ottocentomila vittime.
Ecco, di fronte ad eventi e a scoperte che hanno portato a pubbliche scuse di capi di Stato per vicende controverse del passato, in un periodo in cui spesso la storia è sottoposta a cancellazioni, revisioni, falsificazioni, riscritture e riconsiderazione degli eventi, il libro di Mieli fornisce gli ingredienti necessari, quelli dell’accusa e della difesa, a un “tribunale della storia” le cui sentenze non equivalgono a sentenze definitive: “ Sono prese d’atto di una modificata percezione delle vicende del passato. Altre ne verranno”.
Così nel testo trovano spazio vicende come quelle di Eleanor Roosevelt, moglie del presidente degli Stati Uniti, accusata dall’Fbi di J. Edgar Hoover di “criptocomunismo” oppure, scavando nei secoli, di Caterina II, la giovane principessa di un ducato tedesco divenuta zarina a seguito della morte non accidentale del marito, Pietro III, che regalò un’epopea indimenticabile al Paese di cui era divenuta sovrana e di cui , come ricorda Marco Natalizi in Caterina di Russia, non riuscì mai a parlare in modo impeccabile la lingua.
Interi, illuminanti capitoli sono dedicati a Ruggero II, il re che unificò il Sud italiano, ad Enea che molti indizi inducono a considerare un eroe diverso da come ci è stato consegnato da Virgilio, a Filippo IV, l’imperatore malinconico, a Napoleone. C’ è spazio, persino, per “un profeta di nome Gesù” e l’autore di interroga su Catilina: fu la sua davvero una congiura?
Sui banchi dell’accusa, in questo immaginario “tribunale della storia”, si censura quella sorta di idealizzazione dei briganti nella complessa e controversa vicenda meridionale ai tempi della guerra tra Borboni e Savoia, ma spunta, subito dopo, nell’arringa difensiva, la storia del brigante Gasparone, assurto a modello dell’uso politico della figura di un malvivente nella costruzione del nostro Stato unitario.
Un andirivieni di fatti e personaggi che rende questo saggio interessante, gustoso e ammiccante.