• 21 Novembre 2024
Editoriale

Pochi ne parlano, ma a Madrid è in corso una partita che rischiamo di replicare a breve anche a Roma, seppur a parti ribaltate. In Spagna, infatti, conservatori e popolari hanno mobilitato la piazza contro il governo social-secessionista appena allestito da Pedro Sanchez grazie ad un pactum sceleris tra spezzoni dell’izquierda e indipendentisti catalani. Un’operazione spericolata, che prevede un’amnistia per 1400 separatisti e gravose concessioni alla irrequieta Catalogna. Lo schema esattamente opposto va profilandosi in Italia, dove è la sinistra – per ora solo velatamente – ad accusare Giorgia Meloni di privilegiare l’alleanza con Salvini a discapito dell’unità nazionale messa a rischio dal progetto leghista dell’autonomia differenziata. Un’accusa ridicola, non tanto nel merito quanto in riferimento alla fonte da cui promana, dal momento che nel 2001 fu proprio la sinistra, nella (vana) speranza di arruffianarsi gli elettori del Nord, ad incaponirsi nel portare a compimento una modifica della Costituzione di stampo para-secessionista senza la quale il disegno di legge Calderoli oggi non esisterebbe.

Inchiodati Pd e cespugli rosso-verdi alla loro clamorosa incoerenza, ci piacerebbe che le fortissime tensioni innescate dalla nascita del governo Sanchez e i timori che esso va diffondendo sulla tenuta stessa della Spagna finissero per ispirare anche qui da noi riflessioni meno pigre sull’argomento. Lo scriviamo soprattutto a beneficio di chi tratta con eccessiva e irresponsabile confidenza temi come autonomia e federalismo, spesso ignorando che le insidiose derive politico-territoriali ad esser sottesi possono trasformarli in ordigni a tempo e come tali abbisognevoli di ben altra accortezza e ben altri maneggiamenti. Certo, evocare ora una «sindrome catalana» come già incombente sull’Italia e pronta ad avvilupparla una volta introdotto il regionalismo differenziato può apparire fuori luogo. Ma solo a chi dimentica che nelle dinamiche autonomistiche l’escalation è garantita: si sa da dove si parte, ma non dove si arriva. Tanto più se si considera che in materie come queste non esistono vaccini ma solo droghe: il decentramento non immunizza dalla richiesta di autonomia, la concessione dell’autonomia non scongiurare la voglia di federalismo e, per li rami, la soluzione federalista non esorcizza dalla deriva indipendentista. Alla fine della giostra, laddove c’era uno Stato ci si ritrova con uno spezzatino. È il destino che rischia la Spagna: nonostante abbia riconosciuto autonomie, regionalismi e bilinguismi, secondo alcuni: proprio perché ha largheggiato in concessioni, secondo altri.  

Sia come sia, quel che è certo è che se Madrid balla sull’orlo della secessione, Roma deve convincersi che la evocata «sindrome catalana» rappresenta tutt’altro che uno svolazzo retorico o una sollecitazione ansiogena. Al contrario, è la ragionata previsione di quel che potrà accadere anche in Italia una volta messosi sul groppone il regionalismo differenziato (o rafforzato) con il suo inevitabile carico in termini di aumento delle distanze fra territori e di disuguaglianze fra italiani. Vende infatti illusioni chi va sostenendo che la devoluzione di nuove competenze e di nuove risorse alle tre richiedenti regioni settentrionali (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) si rivelerà in un toccasana per il resto d’Italia o, peggio ancora, non scaverà un divario ancora più profondo con il Sud. E semplicemente imbroglia chi scommette sulla funzione perequatrice dei cosiddetti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), immaginando che basti una cornice normativa uguale per tutti per consentire a tutti di riflettersi poi nello stesso specchio. “Essenziali” non vuol dire “uniformi”, ma solo che stabilito un livello minimo al di sotto del quale non si potrà scendere, a salire saranno solo quelli con più risorse.  

È il motivo per cui, analizzando gli effetti dell’autonomia differenziata, l’economista Giancarlo Viesti ha parlato di «secessione dei ricchi». Non è un’esagerazione. Soprattutto alla luce del sentimento di estraneità riscontrabile in fette sempre più cospicue di società meridionale. Alla desertificazione produttiva del Sud sta seguendo ora quella del suo capitale umano. I suoi giovani emigrano e anche il tasso di natalità – tranne alcune eccezioni – è in picchiata. E gli effetti si vedono: è infatti di questi giorni la notizia – diffusa dalla Cgia di Mestre – dell’avvenuto sorpasso dei pensionati sulla popolazione attiva. In pratica, c’è più rendita che reddito da lavoro. Segnali da non sottovalutare. Soprattutto perché la povertà (quantificati dall’Istat in 6 milioni in tutta Italia) è destinata – ripetiamo – ad alimentare l’autoesclusione sociale fino a minare le basi stesse della coesione nazionale. È un processo degenerativo già in atto. E non solo perché vi siano i poveri, sempre esistiti purtroppo, ma soprattutto perché nel frattempo è andato diradandosi lo Stato, compresso in alto dalla Ue, in basso dalle Regioni e sul fronte economico-finanziario dalle privatizzazioni nella proprietà di asset strategici per il sistema-Paese.È solo un caso che sia la sanità il “benchmark” con maggiori differenziazioni tra Nord e Sud o c’entra, invece, la sua ultraventennale regionalizzazione? E se questo è vero, com’è vero, perché ostinarsi a proseguire su quella stessa strada quando il principio di realtà ci imporrebbe di cambiare decisamente rotta? Ma è proprio qui che il principio di realtà ci torna indietro come un boomerang: già, come si potrebbe fare il contrario stando in alleanza con una Lega in evidente affanno elettorale proprio al Nord? Senza trascurare che nei  governi di coalizione si cede e si prende in nome della stabilità. In questo caso, autonomia differenziata in cambio del premierato, nonostante le due soluzioni facillime non congregantur. Tutto vero, ma è un po’ come tentare di nascondere la polvere sotto il tappeto. Presto ci accorgeremo che non ha funzionato. Ecco perché nel frattempo saremo spettatori molto interessati di quel che accadrà ad Ovest, dove qualcosa di nuovo, anzi di antico, finalmente c’è. A Madrid è infatti la destra a scendere in piazza in difesa dell’unità nazionale e della igualdad tra gli spagnoli. A Roma, invece – rassegniamoci – sarà la sinistra prima o poi a farlo. E a noi non resterà che scegliere se piangere o ridere.

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).