A ventisette anni dalla scomparsa, Renzo De Felice è più attuale che mai. Me ne sono reso conto sfogliando, per una ricerca a cui mi stavo dedicando, i suoi scritti “giornalistici”. E mi sono ricordato di quando li leggevo sui giornali ed avevano un altro “sapore”. Riletti insieme, offrono una rappresentazione della realtà che lo studioso esaminava che ha dello stupefacente. E da essi si evince non soltanto come la sua complessiva opera storica (sul fascismo, su Mussolini in particolare, sulle interpretazioni che ne sono state date, ma anche sul giacobinismo, sul dannunzianesimo e sugli ebrei) continua ad essere un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi, ma anche per la visione culturale della contemporaneità che espresse in un copioso lavoro pubblicistico dagli inizi degli anni Sessanta alla sua morte. Questi Scritti giornalistici 1960-1977, (Luni editrice, volume primo, Tomo primo pp.245, 24,00 euro; Tomo secondo pp. 218, 23,00 euro), disponibili in una corposa antologia curata da uno dei migliori allievi dello storico reatino, Giuseppe Parlato, direttore della Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”, che con passione sorretta dall’ intelligente intento divulgativo ha messo insieme ben tre volumi, il primo dei quali in due tomi, che raccolgono la produzione defeliciana soprattutto sul “Corriere della sera” e sul “Giornale” di Indro Montanelli. Nulla di nuovo ci dicono questi scritti d’occasione rispetto alla biografia mussoliniana o ad altri studi sul Ventennio. Tuttavia ribadiscono la sensibilità dello storico nell’immettere i risultati della sua immane indagine nel vissuto quotidiano, vale a dire nel rendere i dati raccolti fruibili al vasto pubblico e farne perfino oggetto di dibattito. Ma da essi viene fuori anche la necessità avvertita da De Felice di difendersi, se così si può dire, dai denigratori sistematici e dai professionisti dell’antifascismo per i quali la “vulgata”, come diceva, propagandistica ad uso e consumo soprattutto dei comunisti doveva essere totalizzante e prevalente. Non solo. Più volte, come dimostrano gli interventi, è stato anche costretto a mettere le mani avanti di fronte agli apologeti che “leggevano” i suoi testi come una sorta di “rivalutazione” di Mussolini finendo per asseverare quel che sostenevano i suoi avversari: la tendenza “giustificazionista”.
Quando apparve il primo volume della biografia di Mussolini per Einaudi, nel 1965, si gridò allo scandalo. E a nulla valse la prefazione di Delio Cantimori che spiegò con dovizia di particolari lo spirito che animava l’opera dell’allora giovane studioso. Fu così che De Felice, che pure aveva cominciato ad intervenire sui giornali con altri intenti, fu costretto ad intingere la penna nel suo inchiostro e a fare giustizia delle malevolenze o della arbitrarie interpretazioni del suo imponente lavoro. Dieci anni dopo la pubblicazione del primo volume, un galantuomo come Giorgio Amendola, esponente di primo piano del Pci, fu costretto a scrivere in prima pagina sull’Unità che era sommamente stupito di vedere come intellettuali e politici “sparassero sullo storico” e ribadì la convinzione che la ricerca scientifica non poteva essere sottomessa al pregiudizio politico nel coraggioso libretto “Intervista sull’antifascismo”, edito da Laterza, pendant dell’ancor più nota “Intervista sul fascismo” con la quale lo storico faceva finalmente il punto sullo stato dell’arte originato dai suoi studi.
De Felice era comunque un uomo tutt’altro che staccato dal mondo. Per questo le occasioni d’intervento giornalistico che gli si offrivano le coglieva con entusiasmo. “Chi lo ha conosciuto – scrive Stefano Folli dell’illuminante ed affettuosa prefazione – sa quanto egli fosse attento alla cronaca e a quella tenue ‘terra di nessuno’ in cui i fatti e i personaggi cessano di essere costretti nella mera attualità e cominciano a essere collocati in una prospettiva più lunga, dove si colgono i nessi e si legano fra loro fili spesso imprevedibili”. E’ la “prospettiva storica” alla quale De Felice teneva particolarmente per non lasciare insinuare l’occasionalismo propagandistico o nei grandi fatti che hanno caratterizzato i mutamenti e le trasformazioni politiche e sociali, ciò valeva per il fascismo, ma anche per il giacobinismo.
Questa antologia, spiega ancora Folli, “rende un eccezionale servizio alla memoria del maestro”. Perché ci aiuta a comprenderne meglio il percorso storico ed intellettuale e nello stesso tempo ci fa apprezzare la sua originalità. Intento condiviso da Parlato che “giustifica” l’operazione editoriale sembrandogli essa il modo migliore non solo per onorarne la memoria, ma anche, sapendolo “nemico di elogi e di retoriche”, è sembrato questo il modo migliore per ricordarne l’insegnamento “che è stato prima di tutto di rigore scientifico e di libertà morale e intellettuale”.
Nei due tomi che compongono il primo volume, sono presenti scritti polemici di De Felice che contribuiscono, anche quando non si condividono, a formarsi un’idea dello storico come attivo “sezionatore” della complessa vita politica italiana degli anni Settanta in particolare. Intervenendo, per esempio, in una polemica tra Guido Gonella ed Enrico Mattei, originata sull’ “Opinione”, quotidiano liberale, De Felice mostrava di ritenere che la decadenza dello Stato era (ed è) la fonte di tutte le nequizie sociali. Scriveva: “Che uno Stato sia ‘assente o impotente’ può dipendere da molti fattori, che lo storico conosce bene. Se però esso è ‘permissivo’ il discorso è diverso e diverse e maggiori sono male responsabilità di chi concretamente ha nelle mani le leve dello Stato. Lo Stato, anche il più liberale e democratico, non può mai essere permissivo, a meno di non abdicare alle sue funzioni e, quindi, di non rassegnarsi ad un lento suicidio”. Era il 1977. Quarantasette anni dopo chi se la sente di dargli torto?