Il libro più fortunato di Domenico De Masi, Ozio creativo – che, in realtà, è una conversazione con la giornalista Maria Serena Palieri –, si apre ricordando il motto riportato sullo schermo del suo computer: “L’uomo che lavora perde tempo prezioso”. Tuttavia, Domenico De Masi, scomparso ieri dopo una malattia fulminea che almeno gli ha risparmiato dolore, ha lavorato tutta la vita, cercando di mettere insieme fantasia e concretezza, emozione e regola (per riferirci ai concetti usati per dare il titolo ai libri che considerava quasi il suo stesso testamento di studioso della sociologia del lavoro: La fantasia e la concretezza; L’emozione e la regola, entrambi per Rizzoli). La sua opera è attraversata da questo convincimento – che ricavava sia dall’analisi della società sia dagli studi –: il tempo del lavoro materiale cala sempre più e aumenta il tempo dell’ozio che è necessario trasformare in intelligenza, creatività, bellezza, gioco. Ozio creativo, appunto. Ma – sbaglierò, senz’altro sbaglierò – al fondo di questa fede più che i libri di Bell e Touraine vi erano la sua fanciullezza e la sua giovinezza trascorse a Sant’Agata dei Goti.
Ogni volta che lo incontravo – e capitava spesso a Roma perché lui abitava al quinto piano di un palazzo che affacciava su corso Vittorio Emanuele e io praticamente di fronte a via del Pellegrino, che è una traversa che si diparte da Campo de’ Fiori – non perdeva occasione per parlare non solo della sua, della nostra Sant’Agata dei Goti ma anche dei suoi ricordi di gioventù, dell’amicizia con i miei genitori, della grande stima che nutriva per l’intelligenza di mio padre: “Io – e mi pare di riascoltarlo – avevo qualche anno più di lui ma lui, pur più ragazzino, era il più intelligente di tutti ed era sempre aggiornato sulla musica, sul cinema, sulla letteratura americana e mi parlava di Howl di Allen Ginsberg. Capito? Ginsberg a Sant’Agata dei Goti grazie a tuo padre!”. Ma, in fondo, se a Sant’Agata dei Goti il nonno di Mimmo portò la corrente elettrica alla fine dell’Ottocento, mio padre poté ben portarci Allen Ginsberg negli anni Sessanta – infatti, ho con me ancora il volumetto della City Lights Books di San Francisco del 1959, con tanto di marchio a stampa di mio padre: k f (King Fausto), ah la giovinezza! E’ stata questa giovinezza santagatese che ha dato a Mimmo l’intuizione dell’ “ozio creativo”: l’idea, cioè, di poter vivere creando e curando beni immateriali come il gusto, la scienza, la bellezza. Un’intuizione che negli ultimi tempi – causa anche le esigenze politiche – gli era scappata un po’ di mano e si era snaturata fatalmente in una nuova stagione di statalismo e di clientelismo che, da antico collaboratore di Nord e Sud, senz’altro non auspicava al Mezzogiorno.
Cosa resterà del lavoro di Domenico De Masi? Credo tre cose: didattica, saggistica, Ravello. Sì, anche Ravello perché in fondo in fondo quel che ha realizzato su quel lembo della Costiera amalfitana è il tentativo di passare dalla teoria alla pratica e in parte ci è riuscito (il suo Ravello. Un petit tour, Avagliano, resterà tra le cose più bello che ha scritto). Quel che ha fatto per Ravello lo avrebbe voluto fare per la sua Sant’Agata ma non c’è riuscito per un motivo semplice: perché non si è profeti nella propria patria e anche il suo “ozio creativo” aveva bisogno per essere realizzato di un distacco affettivo che a Sant’Agata non era possibile. Quando vi ritornava si rifugiava da zio Renato (Desiderio), poi dopo la sua scomparsa andava da zio Claudio (Desiderio) e poi toccò a me e mi considerava quasi una sorta di suo nipote. Gli parlai della “Biblioteca Michele Melenzio” – che ho fondato a Sant’Agata con Claudio Lubrano e la Pro Loco – ed era così entusiasta da donare migliaia di volumi che oggi costituiscono il Fondo De Masi. Venne più volte in Biblioteca e conversando e presentando il suo testo Tag (Rizzoli) disse: “E’ meraviglioso. E’ gratificante sapere che anche dopo la mia morte i miei libri possono essere utili ad altre persone”.La visione che Mimmo aveva della storia era fortemente influenzata dai suoi studi sociologici. Vedeva tre fasi: un’era pre-industriale, una industriale e una post-industriale, quasi a ricalcare le tre epoche dello sviluppo dell’umanità che si ritrovano nel padre della sociologia Auguste Comte. Anche la storia contemporanea la divideva in modo schematico. Diceva: “Il capitalismo sa produrre senza distribuire, il comunismo sa distribuire senza produrre”. E cercava una sintesi: “Da qualche parte nel mondo si produrrà, ora il problema è la distribuzione”. E’ questo il lato debole, troppo debole della sua sociologia, eccessivamente contrassegnato dalla fede politica e da una fiducia arbitraria nella ragione illuministica che lo spingeva a credere che gli intellettuali dovessero mettersi alla testa del mondo globale, come afferma nel libro Mappa Mundi (Rizzoli) – che è il limite non solo di ogni intellettuale puro ossia professore ma anche il vizio d’origine del comunismo marxista. Non aveva in gran considerazione Bauman – anzi, lo detestava proprio – e aveva in Luca Ricolfi il suo naturale antagonista, quasi una sorta di Anti-De Masi. Ma per tutto ciò ci sarà tempo per discutere. Ora mi piace ricordarlo nella sua voglia di vita, in un entusiasmo quasi infantile per le belle cose, tra le quali annoverava anche le macchine umane, nella speranza che potessero liberare l’uomo dalle fatiche e consegnarlo ai lavori del “tempo libero”. Quel “tempo libero” che somiglia troppo, in ognuno di noi, al “mondo fanciullo” che siamo stati e che cerchiamo invano nella vita adulta.