Ezra Pound, Hans Jonas, Wendell Berry, Ugo Spirito, Paolo Colli, Marcello Veneziani, Arne Naess, Kirkpatrick Sale, Mircea Eliade, Drieu La Rochelle, Ortega Y Gasset, Alain de Benoist, Rutilio Sermonti, Giuseppe Rensi: quando nomi così ideologicamente distanti tra loro si affiancano, non solo si ha la conferma di un buon libro che la maggior parte delle volte nasce da una poliedrica libreria personale, ma si ha più diffusamente la conferma per cui, in ultima istanza, esiste un vettore comune tra tutti i pensatori e si chiama “paradigma ecologico”. Paradigma, cioè, che a filosofie progressiste e riduzionistiche sostituisca la filosofia ricomprensiva ambientale la quale, per assunto stesso dell’abbracciante, nasce, approda e ritorna alla natura come conferma di un modo di procedere di ampio respiro che, al posto di automatizzare, enuclea (il celebre invito a “scorgere nel particolare i segni di un universale”).
Se c’è una cosa che si può trarre nitidamente dalla parabola della natura è che non si può andare avanti di frammentazione. La natura procede per tesi, antitesi e sintesi, se ne frega dell’incasellamento per numeri e la sola matematica contemplata è quella dell’eterno ritorno del “ciclo delle stagioni”. La natura è sterminata origine che aberra il manicheismo. Manicheismo che pure esiste nel testo di Sandro Marano, La cruna dell’ago. Scorribande di un ecologista inquieto,Edizioni Solfanelli ), ma a rigore, in quanto solamente propedeutico ad una prima fase di contestualizzazione del mondo moderno, che pone da una parte il sovrappiù capitalista e da un’altra parte il deficit ecologico; manicheismo riscontrabile in una follia materialista che non calcola e non vuole calcolare il danno ambientale e manicheismo implicito nel ricatto occupazionale (ben noto il caso dell’ILVA di Taranto) per cui la salute è antitetica al lavoro.
Il modello sociale ed economico “paranoico” corrisponde al “saccheggio della terra” ed è chiaro che all’homo faber divenuto homo consumens non può che seguire una “società di rifiuti”. Rifiuti differenziati? Ed è qui il problema. Non basta, non è sufficiente, a suo modo è una targhetta marketing che ha del politico, ma non del “pubblico”. L’“ecologia profonda”, al contrario, è una realtà che ha tutto collegato, è l’appartenenza non ad un luogo, ma alla Terra; è una realtà né oggettiva, né soggettiva ma “relazionale”. Il “seguire naturalmente” di ogni cosa sottintende ad una solidarietà appurata col continuum di qualsiasi altra forma di vita della catena inesauribile.
Leggere il mondo in questo senso è chiaro già nella capitolazione (tra i vari titoli: “ecologia e poesia”, “ecologia e religione”) che sussume la volontà di sanare la rottura tra uomo e natura nella ricerca di una legge di pensiero che abbia i segni del tutto ma che si manifesti nel senso del “limite” (grande scoperta e riscoperta dell’ecologia, il senso del limite: lascito agostiniano della “gloria che abbassa e dell’abbassamento che innalza”).
Considerando però che non esiste un atto vero e proprio che possa aprire la strada verso la conversione ecologica, allora rimane il vecchio antitetico ammuffito tra dittatura ecologica e anarchia anti-ambientale o la terza via può salvare capre, cavoli e darci oggi una consapevolezza nuova che pare perduta nel pervertimento economico che misconosce la provenienza dell’uomo stesso? Molto più semplicemente, ci si chiede: una società sostenibile è perseguibile da una democrazia?
Siamo i segni della natura che ci sovrasta, ci abita e ci pervade ma ne manca la buona gestione o ci si dovrebbe trascinare nella sua gestione e fare un passo indietro rispetto alla foga dell’uomo che tutto risolve d’ingegno?