La solitudine si stempera nei ricordi. E troppi ne ho per riempire la bisaccia del rimpianto e della nostalgia. Compio settant’anni e non ho nessuna voglia di auto celebrarmi, né di essere celebrato. Provo orrore nel sentirmi dire: “Fortunato te che ci sei arrivato”. Se le cose fossero andate diversamente – e tante volte poteva succedere – non starei qui a contemplare la vecchiaia che dilaga nel mio corpo e nel mio spirito. Il Destino ha voluto che arrivassi sulla soglia dell’ inevitabile passaggio con tutti i miei molti difetti e le poche virtù che questa vita hanno segnato in maniera tale da farmi essere quel che sono, nel bene e nel male. Lo devo alla Provvidenza, senza alcun dubbio. E mi accuccio sul cuscino la sera pregando, come faccio del resto da quando me lo hanno insegnato, ringraziando il Creatore per tutto quel che mi ha dato.
Lascio da parte malattie, disgrazie, lutti, delusioni: ognuno può compilare un elenco; nessuno ne è immune. Ma il carattere è quello che a settant’anni mi ritrovo con lo spirito di chi ha voglia di nuove avventure e non si spaventa della morte che si avvicina, è bensì ossessionato dalle malattie incombenti, dagli acciacchi, dalle fragilità che diventano sempre più evidenti, dall’incapacità di comprendere con l’agilità di un tempo cose complicate, come gli affetti, i sentimenti, gli amori.
In settant’anni ho visto deflagrare guerre e decadere valori, accendersi entusiasmi collettivi e immaginare rivoluzioni impossibili, dissolversi nazioni e nascerne di nuove, regnare tre grandi Papi e immiserirsi il cattolicesimo, avanzare la teologia della liberazione e costruire templi di Dio come fossero rimesse di autobus, osservare miserie umane e trionfare piccoli despoti, ascese e cadute, vendette di popoli giovani contro popoli rattrappiti nel loro egoismo. In settant’anni ho riposto speranze in tanti finti amici che le hanno tradite e mi sono tenuto, come doni preziosi, pochi, umili compagni che hanno supportato le mie disgrazie ed i miei dolori. E poi ho coltivato l’amore con grande ardore. Ora mi ritrovo sempre più solo e pratico la raccolta dei ricordi di chi non c’è più, dei tanti più giovani e più vecchi di me che sono spariti più o meno improvvisamente. Tengo un elenco negli ultimi anni dei più cari che sono andati via, di quelli che hanno trovato nuove compagnie nell’aldilà e spero che abbiano incontrato anche mio padre e mia madre, i parenti più stretti, i giovani amici e le giovani amiche che mi hanno lasciato nella disperazione.
Ma in settant’anni, a parte tutto questo, ho visto l’umanità cambiare in peggio, diventare brutale, aggressiva, possessiva, incapace di amare e di cercare sollievo per coloro che vivono ai margini della cosiddetta civiltà. Della mia, della nostra civiltà che si è imbarbarita, che è diventata la caricatura di ciò che era, che è mostruosamente cambiata, inebriata dal progresso illusorio e dalla libertà scambiata per libertinaggio che è terribilmente oscena al punto di concepire la genitorialità come un fattore aritmetico e non più come un dono divino, “fabbricare” bambini e venderli a ricchi e potenti bramosi di una discendenza. Ho visto le comunità disfarsi in tribù; le piccole città frantumarsi e perdere la loro identità; decadere e spopolarsi borghi che preservavano fino a qualche decennio fa civili costumi che felicemente tramandavano.
I miei settant’anni non sono splendidi: arranco su per utopie che gli ottimisti mi rimproverano cercando di tenere il passo mentre davanti a me si parano pietre che fatico a scavalcare. Dò la mano ai miei nipotini che fanno fatica a starmi dietro, prede di mode che non mi appartengono e qualche lacrima non riesco a nasconderla pensando a come saranno tra dieci, venti o trent’anni quando con ogni probabilità non ci sarò più.
Eccoli i miei settant’anni. Li avevo immaginati diversi: sono invece rovinati dall’ incuria che l’epoca dovrebbe dedicare agli anziani, ai vecchi, come ai bambini. Non mi piacciono. E non li festeggerò. Accoglierò gli auguri per il tempo fuggito e per quello che fuggirà. Dopo le preghiere del mattino accenderò una piccola fiaccola che mi tenga compagnia tutto il giorno, per ricordarmi che l’eternità è vicina ed io devo apparecchiarmi ad entrarci, secondo i precetti di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Con il capo chino davanti a chi mi ha dato la vita, questa vita che a settant’anni vibra ancora di tensioni morali, di passioni civili, di speranze, di poesie che tengo soltanto per me ormai.