Una relazione tra poesia e archetipi è nel linguaggio mistico ed esoterico di Cristina Campo in una visione in cui l’antropologia della parola è metafora di una metafisica in cui la tradizione è un valore ontologico dentro una griglia di metafore.
Cristina Campo: ” Ci viene insegnato che nella lingua araba classica una radice comune lega tappeto e farfalla e certo non soltanto per la fascinazione dei colori. Il tessere e l’annodare alludono di per sé alle vicende ordite per gli uomini da invisibili mani. E si sa come il vocabolo greco che indica l’attimo senza ritorno, da cogliere come un fiore miracoloso − kairos – sia usato per definire un altro indefinibile: la momentanea, lampeggiante fissura tra l’ordito e la trama in cui la spola penetra fulmineamente, come la lama mortale tra i due pezzi di un’armatura”. La speranza e la preghiera sono nella vita. Sono la vita. “Se ancora due uomini incontrandosi si inchinano l’uno all’altro, la civiltà è salva”. La speranza, la preghiera, le voci del silenzio sono i tracciati dentro i percorsi di una esistenza fatta di poesia, di mistero, di simboli.
Linguaggi che danno senso a un “vocabolario” di sentimenti, in cui il tempo è primordiale viaggio di tensioni tra destini che si intrecciano o si incontrano. La poesia è un’anima di vocazioni indefinibili. Tra questi il mondo arabo è uno scintillare di simboli tra il mito della farfalla e gli archetipi delle notti sui tappeti. Simboli, metafore, archetipi sulla soglia onirica.
La poesia di Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, (Bologna, 1923 – 1977) è sempre un travaglio dove il “passo d’addio” è un navigare lungo le meridiane della attesa. Anima religiosa, religiosa anima che non dimentica il passo di San Paolo nel tremore di una religiosità in cui non mancano le nostalgie e il tempo, sempre il tempo, è un incastro infinito nel gioco del vivere quotidiano tra la farfalla che si posa e sfugge e il tappeto che ha un Oriente per attesa.
Il tema degli addii è una metafora fondamentale nella poesia di Cristina Campo. In essa ci sono le tempeste e le inquietudini ma anche i riposi. E’ nel 1956 che pubblica il suo primo testo di versi dal titolo, appunto, “Passo d’addio”. Immagini danzanti sul davanzale delle parole che non raccontano ma offrono specchi e recita. Gli echi e i suoni del Mediterraneo sono processi linguistici e tensioni esistenziali.
Il Mediterraneo come poesia e come cultura. Come nei versi della poesia dal titolo: “Diario bizantino”: “Due mondi – e io vengo dall’altro”. Perché “La soglia, qui, non è tra mondo e mondo/né tra anima e corpo…”. Questo viaggio bizantino mette a confronto epoche e mondi. Storie e destini in un unico viaggio. Il diario accentua un orizzonte nel quale le proiezioni delle stesse immagini sono tasselli di un mosaico che ha fatto di spicci di ricordi. E i ricordi sono ansie, sentieri incantati e deserti. La religiosità e devozione e le voci sono echi che giungono da lontano.
Le distanze misurano sempre le solitudini perché sono le solitudine che segnano le rughe e incidono solchi. Ci sono solchi nella consapevolezza degli addii e gli addii sono comprensione delle distanze. “Devota come ramo/curvato da molte nevi/allegra come falò/per colline d’oblio,//su acutissime làmine/in bianca maglia d’ortiche,/ti insegnerò, mia anima,/questo passo d’addio…”.
Dunque, un passo di addio. Una parola che è sempre una preghiera. Il 24 luglio del 1958 Cristina Campo osserva: “…io non ho,davvero, che la poesia come preghiera – ma posso offrirla?”. Un interrogativo che non smette di vivere nelle dimensioni dell’essere. La sua poesia è un essere che ha parole di luna e di fuoco. Tutto avviene nella memoria della parola stessa perché è qui che la letteratura è un destino mistico e la mistica è un vagare nella letteratura. Il sacro si nutre di liturgia ma anche di miti. Le sue pagine sono ricche di dimensioni metafisiche nelle quali la metafora è un incessante desiderio di penetrare la realtà non con gli strumenti del rappresentare o del definire ma con lo sguardo della contemplazione. E tutto si nutre di rito. Il rito è una antica liturgia nel cammino dell’uomo.
“Il rito è per eccellenza questa esperienza di morte – rigenerazione attraverso la bellezza… I riti) sono… io credo, i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia…”, così scrive Cristina Campo il 16 aprile del 1972 sul “Tempo”. Siamo costantemente alla preghiera. La parola che si fa preghiera è un canto di recita. Cristina Campo si è sempre interrogata in quel vivere di “stelle spente”. Le “Lettere a Mita” del 1999, chiaramente postume come gran parte dei suoi scritti, sostengono un cantico di esistenze e di passione. La passione redentrice nella spiritualità della memoria che non si abbandona solo al travaglio di un inquieto esistere ma si lascia catturare da quel paesaggio mai fisico perché è sempre mitico. Così si riscontra nelle pagine di testi come “La tigre assenza” o “Gli imperdonabili”, o “Sotto falso nome”.
Il ricercare la perfezione è nel cavo del cuore di un tempo indissolubile. Il sentimento della cristianità che si riscontra in Cristina Campo è un travolgere l’indefinibilità del tutto perché il tutto resta nell’eternità della parola rivelazione. E Cristina Campo ha fatto della poesia il filo che unisce il senso della rivelazione alla parola rivelata. Si ascolta: “…/Ti cercherò per questa terra che trema/lungo i ponti che appena ci sorreggono ormai/sotto i meli profusi, le viti in fiamme./Volevo andarmene sola al Monte Athos/dicevo: restano pagine come torri/negli alti covi difesi da un rintocco.//…/Ma ora non sei più là, sei tra le grandi ali incerte/trapassate dal vento, negli aeroporti di luce.//…/nei denti disperati degli amanti che non disserta/più il dolce fiotto, la vita d’oro del figlio…”.
Una poesia da “Poesie sparse” che porta un titolo emblematico. Appunto: “Emmaus”. Non siamo oltre il tempo ma dentro il tempo e la recita della vita si svolge nel teatro immenso che offre scenari impareggiabili. E’ la voce che giunge dal deserto nel vento che porta misericordia e meraviglia: “voglio destarmi sulla via di Damasco”. Questa via è l’urlo della salvezza o il silenzio che ci fa capire i messaggi della profezia. Cristina Campo, in fondo, è il poeta della profezia e della preghiera. Come tutti i grandi poeti che sono sulla strada dell’ontologia vive di vissuto perché il vissuto è oltre il presente stesso perché sigilla l’istante al tempo. La grandezza di Cristina Campo: “Io non prego mai per i morti, io prego i morti. L’infinita sapienza e clemenza dei loro volti – come si può pensare che abbiano ancora bisogno di noi? – Ad ogni amico che se ne va io racconto di un amico che resta; a quella infinita cortesia senza rughe ricordo un volto di quaggiù, torturato, oscillante”.
Un sigillo che ci riporta al Cantico biblico in un paesaggio di ombre che tentano di penetrare la luce ma è la luce che rende luminosa l’ombra senza mascherarla nel riflesso ma rendendola propria di luce viva. Ed è questo l’andare verso il vero cammino: “(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,/stella su te, sul mondo che il tuo passo rinchiude)”. Non solo una metafora ma quella metafisica dell’anima che è singolare ricchezza testamentaria. La poesia di Cristina Campo è il testamento di un’anima. Quei segni sono i simboli di un camminamento che si fa vita e favola tra i passi della nostalgia o di un Nostos. Una dimensione in cui l’ontologico è un persistente viaggio al centro degli dei, dell’uomo e di un mosaico sacro che è estetica della esistenza.
A Cristina Campo ho dedicato diversi studi e appuntamenti in servizi televisivi. Il 20 novembre del 2012 su Rai Tre è andata in onda un programma nei programmi culturali.
Successivamente in un video (https://www.youtube.com/watch?v=g21iTWJdkwA&t=52s) ho tracciato, oltre che in diversi saggi, il mio viaggio con Cristina Campo. Si va verso il centenario della nascita e il lavoro ha una sua continuità con una pubblicazione su Cristina Campo, una metafisica del mistero nella metafora del volo della farfalla e del riposo – pazienza del tappeto. Si misura il tempo oltre la morte identità.