• 3 Dicembre 2024
Editoriale

È durato giusto lespace dun matin il lodevole l’intento del guardasigilli Nordio di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta che facesse luce su mandanti e finalità delle migliaia di accessi abusivi nel cervellone della Direzione nazionale antimafia per ottenerne informazioni riservate su esponenti di governo, parlamentari, imprenditori e vip. Anche chi scrive ha trovato irrituale che a sollecitare la nascita di un organismo, appunto, parlamentare fosse un ministro in carica. Tuttavia, al di là della grammatica istituzionale esiste la sostanza delle cose, e la soluzione indicata da Nordio colpiva nel segno. Anzi, è un peccato non averla colta. Tanto più che il pasticciaccio brutto di Via Giulia aveva (ed ha) tutte le premesse per spingere le Camere a decidersi al grande passo, varare, cioè, una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia negli ultimi trent’anni. Vaste programme, direbbe De Gaulle, ma davvero non v’è altra strada per liberarsi dai miasmi sprigionati dalla guerra tra politica e giustizia. È l’unico modo per disfarsi del passato che non passa.

Evidentemente c’è invece chi il passato, anziché superarlo, preferisce scansarlo nella paura di venirne risucchiato. Ma così non lo si affronta, lo si rimuove, spesso ottenendo di trasformarlo in minaccia incombente. In politica è legge più che ferrea, come ben dimostra l’ultraventennale scontro, ora ad alta ora a bassa intensità tra Parlamento e magistratura: una guerra infinita, combattuta, da un lato, a colpi di lodi, leggi ad personam e aborti di riforma e, dall’altro, a suon di inchieste a raffica, avvisi di garanzia come continuazione della politica con altri mezzi e sentenze in acre odore di pregiudizio. L’era berlusconiana è trascorsa così, con sullo sfondo la gigantesca questione del conflitto d’interesse, a volte invocata, altre evocata, ma sempre utilizzata come arma di aggressione ad hominem. Ed è proseguita anche dopo che il Cavaliere è stato prima disarcionato (per via giudiziaria), poi condotto in ideali ceppi ad espiare il fio in un centro anziani in quel di Cesano Boscone e, infine, riabilitato e rieletto in quello stesso Senato che anni prima lo aveva espulso per indegnità dai propri ranghi.

Quando, nel giugno scorso, ha tolto definitivamente il disturbo ad avversari e detrattori in molti hanno pensato alla fine di un’epoca. Morto lui, risolto il problema, avranno pensato. Errore, perché quel livido grumo di risentimenti reciproci è ancora lì ad incombere minacciosamente sulle nostre istituzioni. Il ribollente pentolone del presunto dossieraggio da parte di un oscuro ufficiale della Guarda di Finanza in forze alla Direzione nazionale antimafia è lì a dimostrarlo. Una mostruosa (copyright del procuratore Raffaele Cantone) spy story che per proporzioni non può essere archiviata alla voce “anomalie”. Al contrario – e in tal senso convinceva l’idea di Nordio -, andava scoperchiata e sviscerata in ogni suo anfratto. Tanto più che essa si annida nel cuore stesso dell’apparato investigativo italiano operativo, in quella Superprocura antimafia fortemente voluta da Giovanni Falcone ma che nel tempo si è trasformata in un pregiato bacino di reclutamento politico in uso alla sinistra. Ben tre degli ultimi suoi capi – Piero Grasso, Franco Roberti e Federico Cafiero de Raho – sono infatti passati direttamente dalla Dna agli scranni parlamentari, rispettivamente sotto le insegne di Leu, Pd e M5S.

Salto più che legittimo in termini formali, ma che un po’ di stupore lo desta se si pensa che chi guida gli apparati investigativi di Via Giulia dispone come nessun altro di un patrimonio cognitivo su uomini, imprese, movimenti finanziarie e situazioni patrimoniali. Non meraviglia, perciò, se all’indomani dello scandalo, dalle colonne de Il Giornale, Alessandro Sallusti si sia chiesto «quali meriti politici o professionali abbiano accumulato Roberti e Cafiero de Raho per passare direttamente dalla toga alla poltrona da onorevole». Interrogativo troppo importante per la qualità e per le sorti della malmessa democrazia italiana perché lo si possa girare solo ai diretti interessati e non anche al Parlamento. E qui torna d’attualità il suggerimento iniziale della commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia da Tangentopoli in poi. Che cos’altro deve accadere perché ci si decida a spazzare via la nube tossica che da oltre un trentennio avvolge e avvelena il Paese in una serie infinita di accuse, sospetti e recriminazioni? Una commissione non al servizio della politica, men che meno del centrodestra – la parte più colpita in questi anni dalla tracimazione del potere giudiziario e dalla sua venefica appendice mediatica -, ma delle istituzioni, compresa quella parte cospicua di magistratura spaesata dal progressivo affermarsi e consolidarsi, nell’ordine giudiziario, di un collateralismo politico frutto di un esasperato correntismo, sempre più povero di “pensiero” e sempre più strutturato in termini di potere.

Perché tanta prudenza nel procedere? Eppure ne è già passata tanta di acqua sporca sotto i ponti in quest’ultimo lustro. Era una vera e propria piena quella che travolse il Csm al tempo delle scioccanti rivelazioni messe in piazza da Luca Palamara nel libro “Il Sistema. Addirittura raccapricciante lo spaccato emerso in quelle pagine. Ricordate? Politici indagati in quanto «nemici», altri risparmiati poiché «amici» e decisioni dell’organo di autogoverno dei magistrati su promozioni, assegnazione di sedi ambite e incarichi direttivi non sulla base del merito bensì su quella della fedeltà correntizia. Era, appunto, il Sistema. Ed è ancora lì perché a saldarne il conto sono stati paradossalmente solo Palamara e i suoi sodali che hanno pagato caro il tentativo di estromettere per la prima volta la sinistra giudiziaria dai maneggi correntizi intorno alla Procura di Roma. È finita così, come non sarebbe finita in nessun’altra parte del mondo civile, perché da nessuna parte esiste un ordine giudiziario che concepisce se stesso come contropotere e da tale agisce in virtù di una propria “ideologia” e sulla scorta di una propria lettura del “caso italiano” (basta ascoltare gli sproloqui del senatore pentastellato Scarpinato sulle stragi in Italia per rendersene conto). E se esistesse, lo avrebbero già bollato come eversivo.

Ma neppure le circostanziate denunce del libro di Palamara hanno avuto la forza di convincere il Parlamento a superare il passato, anziché rimuoverlo. Non meraviglia: il nuovismo e il presentismo di cui sono impregnate le attuali forze politiche impediscono loro di farsi carico di quel che c’era ieri. Hanno paura che il morto afferri il vivo ma finiscono per restarvi avvinghiati ogni qualvolta cercano di scacciarlo. Anzi, più trattano il nodo irrisolto della malagiustizia alla stregua di un’ingombrante reliquia del berlusconismo, più quello si stringe intorno alla giugulare della politica. Ne avremo l’ennesima prova ora che Nordio porterà in Parlamento l’annunciato testo sulla separazione delle carriere. S’illude chi pensa che il tempo nuovo sconsiglierà ad Anm e a toghe rosse di contorcersi tra mille minacce. Accadrà, anzi, l’esatto contrario in nome del passato che non passa. Un brutto affare davvero. Soprattutto perché cova il serio rischio che il vivo di oggi sarà presto il morto di domani.  

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).