
Lo giuro, mi sono testimoni la mia famiglia e tanti amici: almeno da questa estate andavo pronosticando che Donald Trump avrebbe vinto a mani basse. Cosi come prevedo ed azzardo anche ora che il nuovo presidente USA riuscirà a far fare la pace tra Russia ed Ucraina e, quanto meno, a far cessare il fuoco in Palestina. Del resto chi avrebbe vinto non per poco ma alla grande era scontato perché aveva davanti a sé una prateria nella quale andare a caccia di migliaia e migliaia di voti da raccogliere, senza nemmeno aver fatto tanto per arare e seminare in un terreno già fertile di per sé, al quale avevano dato concime e fertilizzanti politiche dissennate sul piano dei costumi e della morale individuale e sociale; élites progressiste totalmente lontane dalle sensibilità del popolo; un’amministrazione federale nelle mani di un incapace, se non un irresponsabile guerrafondaio come Joe Biden, affiancato da una Vicepresidente come Kamala Harris che si era fatta conoscere fin dall’inizio del suo mandato per le gaffe che andava facendo in giro per gli States.
Non occorrevano arti e doti divinatorie e profetiche per sapere tutto questo, ma disporre solamente di un poco di esperienza e, sopratutto saper leggere la realtà politica, sociale e culturale della più importante e potente nazione del mondo. Non potevano perciò bastare a far vincere la Kamala le star dello spettacolo, gli interpreti del cinema e del teatro più o meno attraenti, le ragazze sculettanti messe in mostra sul palcoscenico dei vari comizi che si sono dimostrati del tutto insufficienti nell’orientare e nel raccogliere voti.
Eppur anche dopo la chiusura dei seggi elettorali qui da noi, in Italia, la grande stampa e le principali Tv continuavano a sostenere che la Harris era in testa e che tuttal’più i due candidati risultavano essere testa a testa.
Impressionante, nel significato etimologico della parola, sentire a “Porta a Porta”, Bruno Vespa ammettere di non poter garantire la par condicio perché in studio c’era tra una decina di giornalisti, commentatori, storici e “sputa sentenze” vari, solo un sostenitore di Trump mentre tutti gli altri erano schierati a favore della Harris. Persino ad urne aperte questi soloni “Sò tutto mi” continuavano a sostenere che la candidata democratica era in vantaggio: Massimo Giannini su varie reti televisive pontificava; Riotta (“isteriosa o pragmantica: l’imprendibile Kamala sfida i tabù dell’America”), Maurizio Molinari (“Kamala Harris vede la possibilità di una rincorsa in extremis capace di farla diventare la prima donna a sedersi nello Studio Ovale. A rovesciare la situazione sono i dati sul voto per posta… ben il 55% sono donne”… – ed il nostro già sapeva che avrebbero votato per lei – “Il fattore entusiasmo… sta favorendo lei, – e si è visto – come Obama nel 2008”), David Parenzo (“Harris, la candidata… anzi la presidente degli Stati Uniti, diciamocelo subito”), Peppe Provenzano (“Dai dem Usa una lezione per noi: si vince se si è uniti”), Antonio Di Bella (“Tutto è possibile, ma io penso che vincerà Kamala Harris”), Bill Emmot (“La sorpresa che può spiazzare Trump si chiama alta affluenza delle donne. Il tycoon partiva in vantaggio sull’economia, ma ora stenta”) e tanti altri che ora, dopo la vittoria del tycoon hanno il coraggio di montare in cattedra per spiegarci cosa sia veramente e perché sia avvenuto questo vero e proprio terremoto elettorale.
Basta leggere i titoli dei vari quotidiani e periodici a competizione chiusa: “Siamo nel regno di Trump II non servirà più evocare la calata delle tenebre” apre l’editoriale di Barbara Stefanelli su “Sette” il settimanale del “Corriere della Sera” del 15/11/2024 “…Il 47simo presidente degli Stati Uniti ha colorato di rosso la mappa elettorale americana dei grandi elettori e si è anche assicurato la maggioranza nel voto popolare con distacco di 5 milioni”, superando il record di George W. Bush, 20 anni fa, guadagnando pure nei feudi democratici come New York e vincendo anche al Senato. E nella prima pagina a colori “Il Fatto Quotidiano” titola: “Non l’hanno visto tornare. Il “rieccolo” pigliatutto straccia Harris e i Dem, anche nel voto popolare. Controlla Camera e Senato. E persino Zelenzky si inchina”. E poi tutta la seconda pagina con caratteri cubitali titola: “Il ritorno di Trump “pigliatutto” dalla Casa Bianca al Congresso”. Il quotidiano di Marco Travaglio si avventura anche con Sabrina Provenzani nell’analisi delle cause che hanno determinato la debacle della candidata democratica: “La sconfitta di Harris negli Stati Dem: astensionismo per i diritti civili e trans”. Anche l’organo di Confindustria “Il Sole 24 Ore” dedica intere pagine alla vittoria di Trump, ammettendo, ma solo ad elezioni concluse, che si è trattato di un vero e proprio “KO del politicamente corretto e delle élite democratiche” e che c’è stato un vero e proprio “Trionfo di Trump negli Swing States. Votato da donne, latinos e operai”. Ed ancora “Il Sole 24 Ore” dello stesso giorno scrive per la penna di Sergio Fabrini: “…é indubbio che il risultato delle elezioni americane del 5 novembre scorso rappresenti una svolta “rivoluzionaria”. Una rivoluzione è in corso, non dissimile da quella che si è realizzata negli anni Trenta del secolo scorso. Con il New Deal Franklin F. D. Roosvelt reinventò il partito democratico, Trump ha fatto la stessa cosa con quello repubblicano, emarginando il suo tradizionale establishment conservatore e sostituendolo con un nuovo ceto politico. Il movimento da lui creato, “Make America Great Again” (MAGA), ha trasformato il populismo in una forza istituzionalizzata nel Congresso degli stati, …con un radicamento nelle chiese evangeliche, MAGA si è allargata verso le minoranze latino-americane… e verso gli afroamericani, estendendosi anche al mondo dell’hight tech ed ai giovani…
Tale antagonismo mira a rivedere radicalmente il ruolo dello stato federale, all’interno e all’esterno. All’interno Trump, mira a scardinare le funzioni regolative che lo stato federale esercita… L’obiettivo è lo “Stato minimo”… La messa in discussione del “deep state” da parte di Trump è coerente con la sua messa in discussione del sistema di alleanze costituito dall’America nel secondo dopoguerra. Tale sistema di alleanze, per Trump, implica troppi obblighi per il suo Paese… con le elezioni del 5 novembre scorso, si è affermato un leader (Trump) ed un partito (MAGA) impegnati a introdurre una vera e propria rivoluzione sia all’interno che all’esterno dell’America”.
Fortunatamente anche sulla stampa non a favore di Trump ci sono stati commenti seri ed equilibrati come quello di Massimo Fini apparso su “Il Fatto Quotidiano”, nel quale si può leggere: “The Donald col suo improbabile ciuffo biondo, non solo ha vinto le elezioni, ma le ha vinte a redini basse” come si dice in gergo ippico, ‘gli stramaledetti quadrupedi’, a dispetto di tutta la stampa democratica occidentale che gli tifava contro… Come ho scommesso su Trump vincente, ora scommetto, al tavolo di quell’inquietante di Elon Musk, che la guerra russo-ucraina finirà entro sei mesi”, (è la stessa mia previsione). Questo perché come scrive ancora Massimo (leggete bene Massimo, quel bravo giornalista, Fini): «“The Donald non ha mai fatto guerre, ed ha cominciato bene perché ha promesso che: “Non inizierò guerre, ma le fermerò”».
C’è però chi non si rassegna alla “batosta”, come il “Corriere della Sera” che nel recente supplemento “La lettura” sospira rammaricato: “Kamala Harris? Molti credevano che sarebbe stata la volta buona. Non bisogna fermarsi”. Ed invita – senza aver imparato la lezione – a “… continuare a crederci. Dobbiamo trovare ragazze che vogliono provarci e aiutarle. E alla fine succederà”.
Mentre Lilli Gruber parla di onda nera e scrive: “… qualche settimana fa, commentando per questa stessa rubrica le vittorie delle destre estreme dell’Afd in Germania e della Fpö in Austria, scrissi di “un’onda nera che parla tedesco”. A quanto pare ora parla anche inglese con uno spiccato accento americano… la tempesta politica che sta spazzando le nostre società ha molti tratti comuni. Gli elementi di forza di Trump – pluricondannato e indagato, non dimentichiamolo – sono gli stessi dei leader reazionari europei: nazionalismo, costruzione dei nemici, vittimismo aggressivo, una comunicazione da dito medio alzato: scorretta, offensiva e violenta”. E la sinistra? Si chiede: “Le forze progressiste finiscono intrappolate da queste destre arrembanti e radicali” ammettendo che: “La chiamata alla mobilitazione contro il rischio autoritario – l’argomento più usato – non sta funzionando tanto”… “Perché a questa denuncia mancano sostanza e corpo”… La destra, degli Usa all’Italia, ha saputo dar voce alla rabbia e al risentimento.
E molti altri “saggi” rosicano… come Friedman che sconsolato si domanda: “Dove sono finiti donne e giovani per Kamala?” Mentre il solito Saviano incolpa, via social, la “fogna social”, e la Cuzzocrea parla di “vittoria degli insulti”.
Infine giorni fa “Report” ha messo su un servizio che voleva dimostrare che Trump ha vinto perché è stato appoggiato dalla mafia italo americana e dalla criminalità organizzata.
Non sto scherzando dico la verità, andate a rivedere la trasmissione di domenica 24 novembre.
Dunque molto è stato scritto sui motivi del successo di Trump, possiamo cercare di riassumerli evitando di fare della sociologia spicciola e sopratutto di cadere nei luoghi comuni del politicamente corretto.
Quello che si può dire, senza paura di essere smentiti è che questa vittoria segna la sconfitta politica definitiva della cultura woke, della cancel culture, di una visione dell’uomo a cui tutto è consentito senza nessun limite, dei desideri diventati diritti individuali; certifica il tramonto dell’idea di poter utilizzare a piacimento il proprio corpo, della disponibilità a piacimento della vita nascente e morente; la fine della fiducia illimitata nella tecnica e della proletarizzato della classe media. In sostanza – scrive giustamente il Prof. Giulio Sapelli -: “Trump non si limita a raccogliere i suoi voti, a causa della disgregazione sociale determinata dal neoliberalismo di massa che ha distrutto i legami sociali di ogni genere”… ma “richiama a sé, per rifondarli di nuovo (nell’immaginario soltanto, certamente) quei valori che affondavano le loro radici in una società industriale ormai scomparsa e trasformata dalla leva finanziaria in una società terziaria che trova nella solitudine e nell’anomia la sola forza spirituale che possa trascinare con sé il fiume dei comportamenti collettivi. A questa solitudine anomica, il verbo trumpiano, quanto più è grossolano e minacciato dall’establishment (processi, ecc.), tanto più appare come la sola risposta possibile… e di conseguenza affascina… La divisione sociale si approfondisce e la vittoria di Trump ha, allora, il connotato fortissimo di quell’anticapitalismo di destra che sta attraversando il mondo come risposta all’iper-regolazione della vita sociale”… “Oggi tutto – dal transumano all’utero in affitto, alla vita eterna, alla possibilità di scegliere il proprio sesso grazie alla tecnologia – è possibile… basta volere”… Ed allora: “…la civilizzazione, l’umanesimo, non ha che una risorsa: votare le varie forme di trumpismo che crescono come funghi alla base delle vecchie querce che si abbattono a colpi di politcally correct”…
“A tutto questo, quella parte di cittadini negli Usa che ancora vota e che ancora trova normale il vivere secondo le regole di sempre, si è ribellata e, quale che sia la sua classe sociale, ha votato Donald Trump”.
Per tutti questi motivi è risultata determinante l’apporto delle comunità cristiane statunitensi.
Infatti il 5 novembre scorso, non si è votato solo per il presidente, ma anche sull’aborto. In dieci Stati federati i cittadini hanno votato su altrettanti referendum. In Florida i pro-choice hanno perso: rimarrà il divieto di abortire dopo la sesta settimana. In Nebraska e Sud Dakota: i pro-life hanno vinto. In Arizona hanno vinto i pro-choice. L’aborto è poi diventato diritto costituzionale in alcuni stati. Luci e ombre quindi. Da una parte però l’abortismo arretra, dall’altra mantiene le posizioni oppure guadagna terreno.
In ogni caso è una grande lezione di democrazia quella che ci viene dalla nazione più potente e più avanzata del mondo in termini economici, di innovazione tecnologica e militare. In Italia un tema come quello dell’aborto, invece, resta un vero e proprio tabù: nessuno ne può parlare, nessuno ne può neppure accennare. Non ne parliamo per quanto riguarda i partiti politici anche quelli più coraggiosi e più a destra. Resta qualche associazione che tiene alta la bandiera della difesa della vita fin dal concepimento.
Di certo la vittoria di Trump permetterà ai pro-vita di avere più spazi di manovra. Infatti ben il 56% dei cittadini cattolici Usa ha sostenuto il repubblicano Donald Trump, mentre solo il 41% ha sostenuto la democratica Kamala Harris. Quattro anni fa era stato solo del 47% dei cattolici ed il 50% nel 2016. I cattolici bianchi in particolare hanno votato per il nuovo presidente per oltre il 60%. Biden, che è cattolico, quando vinse aveva ottenuto il 52%. Si tratta di una svolta decisa e profonda all’interno del cattolicesimo americano, perché i più giovani votano per il partito repubblicano proprio contro l’aborto. Nei sette Stati chiave. Trump ha pubblicato sui social immagini e preghiere cattoliche, ha partecipato alla cena Al Smith, un galà organizzato annualmente dall’arcidiocesi di New York per raccogliere fondi per la Caritas, ha concesso un’intervista a Raymond Arroyo di Ewtn, una rete televisiva cattolica conservatrice, ha scelto J. D. Vance come vicepresidente, che ha puntato tutto sui fedeli nei suoi comizi, ha pubblicato sul quotidiano “Pitsburgh Port-Gazette” un editoriale in cui accusava Harris di essere anticattolica “Solo respingendo il suo atteggiamento anticattolico potremo garantire la libertà religiosa a tutti”. E cosi è stato perché il mondo e le chiese cristiane contano ancora negli USA tanto che circa il 52% dell’elettorato femminile bianco ha preferito Donald. Persino tra le nere Trump ha preso più voti rispetto al passato.
Questo spostamento in direzione conservatrice ha fatto saltare i nervi alle commentatrici progressiste, sopratutto quelle di casa nostra, le quali se la sono presa con “le donne che hanno votato contro le donne”. Natalia Aspesi, oltre ad augurasi che a Trump venisse l’Alzheimer, si disperava per il “tradimento delle giovani nere”. Maria Laura Rodotà accusava quelle “donne che contribuiscono a rendere gli Usa una nazione “nera-vetero-patriarcale”. Tutti i media avevano stabilito che massimo interesse della popolazione femminile dovesse essere il “diritto all’aborto”. Ma la gran parte delle donne americane si è dimostrata invece interessata ad altro o in qualche caso addirittura ai temi pro Life piuttosto che ai cosiddetti “diritti riproduttivi”. Dal mondo cattolico italiano arrivano bordate anche dal noto economista Stefano Zamagni, che sostiene che ora gli Stati Uniti finiranno nelle mani dei super ricchi e degli esponenti del nuovo capitalismo oligarchico della Silicon Valley. “Scende la notte sulla democrazia americana. La vittoria straripante di Donald Trump cambia antropologicamente oltre che politicamente la bussola della politica trasformando il Paese in un’oligarchia liberale, una società tecno-liberista, guidata da oligarchie miliardarie e onniscienti, crepuscolo di quell’idea di democrazia partecipativa che il preambolo della Costituzione americana con il suo We the People proclamava orgogliosamente in ossequio al monito di Montesquieu”.
E’ evidente la delusione di una parte del nostro mondo cattolico che preferiva l’abortista, fautore del gender e della cultura woke Harris al conservatore Trump. E lo si può capire perché in Italia ove secondo un rapporto commissionato dalla Ceil la Chiesa è percepita solo come una Ong fai-da-te e la popolazione pur dichiarandosi per il 71,1% cattolico, sopratutto per quanto riguarda la morale sessuale non segue per niente la dottrina.
Questo perché, come giustamente osserva il presidente del Censis, l’amico Giuseppe De Rita, la Chiesa china sui bisogni materiali e non soddisfa quelli più profondi: «La zona grigia nella Chiesa di oggi… è il risultato dell’individualismo imperante, certo, ma anche di una Chiesa che fatica ad indicare un “oltre”, la Chiesa ha sempre aiutato la società italiana ad andare oltre, deve ritrovare questa sua capacità, perché una Chiesa solo orizzontale non intercetta chi è ubriaco di individualismo, perché a costoro non basta sostituire l’Io con un “noi”, hanno bisogno di un oltre, hanno bisogno di andare oltre l’io»… Alle persone non bastano il pane e l’amicizia – ossia la soddisfazione dei bisogni primari e della socialità, due tasti su cui la Chiesa continua a battere – le persone hanno sete di Dio. E in merito alla strada per trovarlo la Chiesa latita nella sua pastorale”. Ma questa differenza con la chiesa statunitense non basta a spiegare la grande vittoria di Trump. L’altro fattore determinante è quello che registra Stefano Fassina in un articolo equilibrato e serio apparso su “Il Fatto Quotidiano” che esordisce riconoscendo «lo choc del circuito politico-mediatico liberal-democratico di fronte alla stravittoria di Donald Trump nella più temuta corsa alla Casa Bianca della storia recente. La ragione l’ha sintetizzata a caldo Bernie Sanders: “Non dovrebbe sorprendere che un Partito democratico che ha abbandonato la classe operaia scopra che la classe operaia lo ha abbandonato. Prima, era la classe operaia bianca, e ora ci sono anche lavoratori latini e neri”. La disfatta delle “oligarchie liberali”».
La verità è, insomma che, come ha dichiarato l’analista Jeffrey Tucker: “La sua vittoria è simile al crollo del Muro di Berlino. Queste elezioni erano un referendum sulla libertà di parola e s’è visto che la gente ormai diffida dei media mainstream” oppure come ha scritto Marcello Veneziani: “Con Trump finalmente si torna alla realtà. Tutto l’establishment, tutti i giornali e tutti gli analisti hanno raccontato un mondo che a conti fatti non esiste. Il divorzio tra popolo ed élite non è mai stato più netto. Ora usciamo dalla bolla e dai suoi menicheismi”.
Il futuro per noi italiani e per noi europei potrebbe aprirci grandi opportunità anche in termini di sovranità nazionale e di autonomia continentale.