• 22 Dicembre 2024
Editoriale

Immaginate di essere una giovane donna, poco più che bambina a dir la verità, magari abitante di un paese centrafricano. La vostra infanzia non è stata facile: vivete in paesi tendenzialmente poverissimi, nei quali certo la condizione di donne e bambine non è tutelata a dovere, e anzi le stesse sono spesso vittime di abusi di ogni genere; ma non è il caso di generalizzare: provenite magari da un contesto “normale”, e avete avuto l’opportunità di frequentare la scuola. Comunque, al seguito di motivazioni e con dinamiche che possono essere varissime, venite prelevate dal vostro paese di origine e trasportate in quei paesi che normalmente definiamo “avanzati o civilizzati”, ma che per voi hanno in serbo lo sfruttamento, nella maggior parte dei casi, declinato nella prostituzione, attività in sé degradante e basata sulla prevaricazione, la violenza e l’abuso degli uomini sulle donne.

Potrebbe sembrare la trama di un qualche film inverosimile e surreale, ma è quello che succede a oltre 25 milioni di donne ogni anno. Anche in questo caso dunque, le vittime del fenomeno sono in prevalenza le donne. Ma che cos’è quella cosa che viene definita in modo quasi perbenistico “tratta delle donne” o, più in generale, “tratta degli esseri umani”? Partiamo col dire che il fenomeno non va confuso con il traffico di migranti, ovvero il crimine che consiste nello spostamento illegale di una o più persone da uno Stato ad un altro con il consenso della persona trafficata e senza, quantomeno dichiarate, finalità di sfruttamento. In realtà, per estensione, il processo di sottomissione e vera e propria compravendita di esseri umani è forse un processo vecchio tanto quanto la civiltà organizzata e su cui la stessa si è fondata per millenni. Cos’è pero oggi quindi, alla luce delle doverose premesse fatte, la tratta?

Secondo quanto indicato dall’art. 3 di uno dei tre protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato, il cosiddetto Protocollo addizionale sulla Tratta, per tratta di esseri umani si intende: «Il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi».

La differenza essenziale con il traffico dei migranti, almeno da un punto di vista formale, risiede proprio nel consenso: i migranti decidono di intraprendere un processo di transizione il cui scopo ultimo è l’arrivo a una destinazione, un altro Stato, mentre le vittime soggette alla tratta scelgono di intraprendere un viaggio ignare delle vere mansioni per le quali sono state reclutate e che svolgeranno. Il fine ultimo non è il trasporto ma lo sfruttamento, chiaramente manifestato in varissimi ambiti.

Dunque voi, giovanissime donne, che per la maggior parte fuggite da situazioni di povertà estrema, partite con l’inganno o consapevoli, ma sicuro allo scuro di ciò che vi aspetta all’arrivo, e proprio dove cercavate nuove opportunità, trovate la strada, la prostituzione, una vera e propria forma di violenza, contraria ai diritti del libero sviluppo della personalità umana, della tutela della salute e della vita, come, espressamente indicato nella Risoluzione del parlamento europeo dell’11 aprile 2011.

Le testimonianze rilasciate qualche anno fa ai microfoni di Fanpage sono molto simili fra loro. “Quando ero in Nigeria, sono stata chiamata per chiedermi se volessi venire in Italia; la prima volta ho detto di no, non voglio venire in Italia; lui ha detto che era molto importante, per aiutare la mia famiglia e avere soldi per costruire una casa, avere un’auto. Così facemmo il giuramento e poi partimmo”

Le vittime vengono dunque private della loro autodeterminazione, e gestite e controllate dalle organizzazioni criminali che, approfittando delle condizioni di ignoranza e superstizione nelle quali le giovani vivono, attuano meccanismi di coercizione psicologica prima ancora che fisici, i quali rendono ancora più difficile intraprendere un eventuale posteriore percorso di recupero e fuoriuscita. Con il termine “giuramento” sopra citato, si fa riferimento alle disumane pratiche coercitive previste dal cosiddetto “rito juju”, cui vengono sottoposte la maggior parte delle vittime nigeriane. Il risultato è un vero e proprio stato di assoggettamento. A volte le donne vengono addirittura sollecitate dalle stesse famiglie che vedono nella loro partenza una possibilità di guadagno. Ma quali sono i paesi maggiormente interessati dal fenomeno? Certamente i poverissimi paesi della fascia equatoriale, in particolare la Nigeria e il Kenya. La maggioranza delle donne vittime di tratta arriva dalla Nigeria, dove è un vero e proprio fenomeno endemico. Nel 90% dei casi, la ragioni dell’espatrio sono la violenza di genere, dentro e fuori le mura domestiche, e situazioni di estrema povertà. Nel 66% dei casi sono donne con un’età compresa tra i 19 e i 24. Benchè sia noto e molto diffuso il fenomeno nell’ambito nigeriano, anche nei paesi dell’Africa orientale la tratta delle donne è una piaga endemica e dunque difficilmente eradicabile. Il Kenya è doppiamente interessato dal problema della tratta delle donne, perché esistono flussi di tratta in uscita e in entrata: numerose donne, perlopiù giovani adolescenti provenienti dall’Asia meridionale, vengono condotte all’interno dei confini del paese, ai fini dello sfruttamento sessuale; altrettante donne keniote vengono adescate e portate in altri stati, per i medesimi motivi. In questo stato, sono poi moltissimi i minori che finiscono nella rete delle organizzazioni criminali che li costringono a prostituirsi, mendicare e lavorare come servitù sottopagata ove c’è richiesta.

Una volta partite da questi paesi, la migrazione delle donne è frequentemente caratterizzata da violenze fisiche, sessuali economiche e psicologiche. Come anticipato, a volte la condizione di violenza sussiste anche nel Paese d’origine all’interno del proprio contesto familiare, e costituisce uno degli stessi motivi delle migrazioni. Si giunge all’ultima tappa del nostro racconto: l’arrivo dopo il viaggio, che nella maggior parte dei casi vuol dire solo una cosa, prostituzione. L’attività di prostituzione non è un’attività lavorativa che può divenire dignitosa; primo perché, dai dati registrati da Eurostat emerge che il 90% della prostituzione non proviene da una presunta “scelta libera” ma alimenta il fenomeno della tratta di persone; secondo, anche se sottratta alla gestione dei trafficanti è una attività in sé svilente e basata sull’abuso. Come doverosamente anticipato prima, è considerabile una vera e propria forma di violenza, contraria ai diritti del libero sviluppo della personalità umana.

“Durante il viaggio, pensavo che sapendo ballare avrei ballato in un locale, ma quando sono arrivata la Madame (Sono prostitute che ‘ce l’hanno fatta’, che hanno estinto il debito nei confronti dei propri trafficanti e che si emancipano dalla posizione di vittime per ricoprire quella di aguzzine) mi ha detto che avrei fatto la prostituta; non potevo dire di no, perché le madame possono uccidere te e la tua famiglia.”

“La Signora mi disse che il lavoro non sarebbe stato difficile: solo stare in piedi in mezzo alla strada e seguire ogni uomo che me lo chiedesse. Devi chiedere venti euro, entrare in auto e seguirli… la strada è estremamente pericolosa; sono state moltissime le aggressioni da cui sono passata”

I sinonimi della parola “prostituta”, che nelle vicende di cui abbiamo parlato si vela quasi di ipocrisia, e che qui non elencheremo per non rischiare di cadere nel turpiloquio, sono tutti piuttosto offensivi, mentre quelli indirizzati ai corrispettivi uomini e nessuno di essi è volgare o offensivo. In questa piccola riflessione linguistica, si cela quanto il problema della tratta sia una piaga che, scaturito da fattori diversi, affligge il genere femminile. Quasi i due terzi del totale delle vittime di tratta sono donne, e un altro 27% sono ragazze. Solo la bassa percentuale del 10% sono ragazzi o uomini. È opportuno, dunque, considerare il preoccupante fenomeno della tratta di esseri umani a scopo sessuale come possibile scenario di gender gap.

La tratta riflette, dunque, in maniera duplice, disuguaglianze di genere, ma anche e soprattutto disuguaglianze globali di ricchezza e potere: in fondo, non si tratta di altro se non del fisiologico soddisfacimento alla richiesta che proviene da paesi che si definiscono più civili e sviluppati. Molteplici sono i fattori che contribuiscono a rendere vulnerabili gli individui e ad esporli al rischio di traffico e sfruttamento, ed è sicuramente necessario comprenderli adeguatamente per poter definire delle adeguate misure politiche e sociali ma prima ancora che questo possa avvenire, è necessario che si sviluppi una consapevolezza sul fenomeno della tratta, che purtroppo non ci vede distanti come ci piacerebbe pensare, ma anzi fra le principali cause dello stesso.

Autore

Alessandro Ebreo è nato ad Avellino il 30 agosto del 2007. Frequenta il Liceo Classico "Rinaldo d'Aquino" di Montella e il corso di pianoforte al conservatorio "Domenico Cimarosa" di Avellino, esibendosi, in varie occasioni, in ambito accademico. Nel 2023, esordisce come cantante nell'opera lirica "Il barbiere di Siviglia" con l' Orchestra Filarmonica di Benevento. In ambito letterario, un suo componimento poetico, dal titolo "Sacrificio", è stato pubblicato, nel 2023, dalla casa editrice "Delta 3 edizioni", nella raccolta "Parole di legalità". Nel 2024, è risultato secondo classificato al "Premio Ginestra" con un elaborato sul tema della violenza di genere, dal titolo "Il posto che mi spetta".